Parole e senso: giornalismo aggressivo vs giornalismo significativo

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Scrivere è testimoniare. Sì, è indubbiamente testimoniare.

L’essenza della scrittura però, non è solo testimonianza, maanche coinvolgimento diretto nella narrazione, con tutto il rispetto che la nostra narrazione vorrebbe e che anche quella degli altri merita.

Se si testimonia, soprattutto del dolore, la voce altrui diventa la tua voce, non perché tu diventi lui o lei, ma perché la sua storia non può trovarti semplice spettatore, perché la sua storia entra nella tua vita e ne diviene parte o, probabilmente, sei tu a divenirne parte.

Ho sempre amato la scrittura, la mia e quella degli altri; la scrittura è divenuta per me, con il tempo, come la pittura per il pittore, la fotografia per il fotografo, lo spartito per il musicista.

Scrivere è diventata arte che si rende pubblica, non tecnica, dunque, ma comunicazione; non presenzialismo, ma responsabilità; non esibizione, ma pudore. Questo in qualsiasi tipo di scrittura, dalla narrativa alla poesia, dalla saggistica al giornalismo.

Scrivere è un modo di fermare l’attimo e farne vivere l’esistenza che è più lunga di un attimo solo.

Scrivere non è memoria, sebbene questa sia una delle conseguenze più immediate della scrittura, ma è ritrovarsi e ritrovare la vita nascosta, addormentata o violata, la vita che tace e non si mostra per i tanti motivi del mondo.

Scrivere è, allora, la vita stessa che cerca una finestra attraverso cui guardare o anche mostrare quello che si prova quando non si è indifferenti alla vita stessa.

Il giornalismo è una forma d’arte nella sua funzione comunicativa e non può cedere alle lusinghe dell’accaparrarsi “il pezzo” o “la scena”, perché nessuna forma d’arte è auto diretta, ma ha sempre l’obbligo di essere etero diretta. Il giornalismo non parla a se stessi, racconta agli altri, che non possono esserne a conoscenza diretta, la vita che accade.

Viviamo in un’epoca di emergenza. Sono tante le situazioni drammatiche che coinvolgono le persone e il loro dolore, ma non bisogna profittare del dolore, non bisogna incidere ferite ancora più profonde per il gusto di avere il maggior numero di audience o di visualizzazioni.

Scrivere di guerre, di terremoti, di cataclismi, di morte e solitudine comporta, o dovrebbe, un forte coinvolgimento emotivo. Un buon giornalista mescola il suo al dolore degli altri senza trarne vantaggio, senza fare clamore o cercare dettagli che lacerano ancora più in profondità il vuoto di chi ha già perso tutto al solo scopo di mettersi in mostra.

Talvolta il silenzio rispettoso accompagna meglio il dolore dell’altro, sostiene con più forza chi vede ridotta in polvere la vita e le vite e che no ha alcun bisogno di essere “sbattuto in prima pagina” per fare clamore. Chi soffre non ha bisogno di clamore ma di vicinanza corretta e silenziosa, non ha bisogno di sentire narrare dei resti degli oggetti e delle foto che un tempo che ormai sembra distante un’eternità gli appartenevano.

Chi soffre ha bisogno di essere accolto, non di essere buttato in piazza.

Chi soffre ha bisogno di sentire che il suo dolore così personale e profondo incontra l’emozione privata dell’altro, ha bisogno di rispetto, ha bisogno di concretezza nel soccorso, non certo di veder divulgato il suo privato nascosto e perduto.

Chi soffre tace, ha tanto da cercare di ritrovare e ricomporre dentro se stesso, non può e non deve avere le parole per rispondere a domande banali cui nessuno potrebbe dare risposta, ci vorrà tanto tempo per cercare le risposte e forse non trovarle mai.

Che senso ha chiedere come ci si sente a uno che ha perso tutto e che neanche è certo di avere almeno se stesso? Che senso ha chiedere che cosa farà dopo a uno che non ha più il senso del tempo? Che senso ha?

Esistono anche gli “sciacalli della parola”.

Gli sciacalli sono predatori di piccoli animali e, soprattutto, mangiatori di carogne.

Ora, mentre gli animali sciacalli seguono il loro istinto comportamentale, gli sciacalli umani non hanno simile istinto naturale e il loro comportamento li rende più vili delle bestie più immonde. Lo sciacallo uomo è un essere spregevole che non si nutre per sopravvivere ma approfitta del dolore e della difficoltà altrui per arricchirsi dei suoi beniconcreti e astratti, come la memoria.

Lo sciacallo umano non ha diritto a entrare nel novero degli umani né degli animali, è un essere abietto che nega la sua dignità umana e biologica. Purtroppo esistono anche gli sciacalli della parola.

L’attenzione all’altro rischia di spegnersi perché la urliamo non la ponderiamo; ci gratifica che il nostro urlo sia sentito, ma smettiamo di ascoltare le grida silenziose di chi non ha il fiato per urlare.

Questo un buon giornalista non dovrebbe consentirlo mai.

di Loredana De Vita