Femminicidio: una piaga che solo la cultura e la legge possono sanare

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Teramo, Ester Pasqualoni trovata morta per mano di uno stalker, poi suicidatosi, più volte denunciato dalla vittima i cui esposti sono stati archiviati: una grave falla nella giustizia e una pesante assenza di tutela verso una donna che ha saputo rompere il muro del silenzio per poi essere abbandonata nelle mani del suo persecutore.

Due sono i fattori imprescindibili di un intervento efficace nella lotta contro i femminicidi che continuano a ripetersi, spesso ignorati dai più che si arrendono o si stancano di affrontare la realtà: da una parte intervenire sulle leggi, dall’altra intervenire sulla cultura.

Nessuno dei due interventi può essere eluso, nessuno dei due interventi esclude l’altro, nessuno dei due interventi ha forza sufficiente per agire da solo.

La modificazione del sentito culturale è fondamentale, ma, allo stato attuale, essa fa i conti con la lentezza di molte “teste” ad evolversi; leggi concrete e non prolisse sono quindi necessarie per sopperire alla lentezza del degrado culturale nel quale molti si sono impantanati considerando la cultura in forma statica e non dinamica come le sarebbe più consono.

D’altra parte, la cultura impegna la persona individualmente oltre che come gruppo sociale, il che significa che sempre e comunque possono verificarsi episodi che remino contro la cultura stessa, per questo sono necessarie leggi dirette, non cavillose, che tutelino le persone e la persona donna.

Molte leggi già esistono, ma si smarriscono nei meandri e negli anfratti di una società ancora legata a stereotipi culturali che definiscono l’inferiorità di un soggetto umano rispetto all’altro differenziandone le caratteristiche per genere (prima di tutto); per colore della pelle, discriminazione di genere che si innesta sul razzismo (cioè, <<le donne sono inferiori, ma alcune lo sono persino di più>>); per credo o cultura, la scelta o meno del velo, può esserne un esempio (Nota Bene, parlo di <<scelta>> libera di una donna per fede personale di indossare o meno il velo, non della cultura violenta che usa il velo o altri segni per imporre la sottomissione e l'<<inesistenza>> sociale e culturale della persona donna).

E’ fondamentale lavorare per modificare la cultura o, meglio, per fare in modo che si accettino i cambiamenti già in atto. Mi riferisco, ad esempio, alla preparazione specialistica e culturale e accademica di molte donne, alla capacità lavorativa generalizzata e ampliata rispetto a professioni ritenute in precedenza di preferenza maschili, alla libertà di movimento e di scelta che appartiene a ogni essere umano in quanto tale e non per suddivisione biologica.

Viviamo un tempo in cui tutto ciò che è nuovo ci spaventa, eppure, se perdiamo l’occasione di imparare a riconoscere e amare il nuovo, stiamo in realtà spegnendo il tempo e con esso il valore di vivere ed esistere in quanto esseri umani dotati di intelligenza, emozioni, azioni.

La forza del senso di colpa in una donna che ama (o crede di amare) il suo compagno che la perseguita e la viola è un fatto piuttosto comune che spinge a non denunciare, ma quando questo accade, non è un caso, poiché segue una precisa e prederminata scansione dei tempi e della gestione della relazione nella coppia.

C’è, infatti, uno schema che tanto involontario non è nel possesso che l’uomo perpetra ai danni della donna che dice di amare.

La prima fase è mostrare una gelosia estrema mascherata da amore, da paura di non soddisfare la compagna, dal terrore che lei gli possa preferire un altro… ne segue un’estraniazione della donna rispetto al gruppo sociale di appartenenza (lavoro, amicizie…) perché la donna non riconosce i segni di un esclusione dal mondo, ma percepisce una sensazione di piacevole accoglienza: se lui è geloso è perché mi ama.

La seconda fase riguarda l’estraniazione verso la famiglia e gli affetti da cui la donna viene separata istillando un senso di vergogna e di colpevolizzazione rispetto ai suoi comportamenti verso il compagno… ne segue che la donna smette di credere in se stessa, è denigrata, offesa, umiliata con parole e gesti, è fortemente condizionata dal punto di vista psicologico: se lui urla, mi picchia, è colpa mia, me la sono cercata perché non gli ho dedicato cure e attenzioni, se lui le vuole è perché mi ama, è colpa mia.

A questo punto c’è la svolta più grave e pericolosa sia dal punto di vista psicologico che fisico… la donna “inesiste” per se stessa (smette cioè di credere di valere qualcosa, sente di essere la causa dei suoi problemi e di quelli del compagno e di meritarne le reazioni; non può confidare a nessuno quello che vive perché se ne sente responsabile e colpevole e quindi si vergogna di se stessa), intanto quel compagno continuerà ad abusare di lei sia fisicamente che psicologicamente godendo di averne annientato ogni resistenza: fa bene, sono sempre disattenta, me lo merito.

Così la situazione scivola verso la fase finale. Se la donna è inerte verso se stessa, ella diventa un oggetto, un possesso, nelle mani del compagno, essa non ha vita propria ma esiste in quanto possesso dell’altro e da questo non può sottrarsi, pena la morte o la persecuzione.

Ogni donna violata attraversa queste fasi e, talvolta, solo i figli la indurranno a reagire, come belva che protegge i cuccioli… talvolta!

Quando una donna denuncia, non si può fare finta di nulla, perché lei ritorna in quella vita e quella vita continuerò a straziarla fino all’ultimo atto. Quando una donna denuncia, non si può lasciarla sola e rischiare di perderla per la lentezza burocratica o per cavilli legali… lasciarla da sola significa consegnarla alla morte.

Forse, quando denuncia è tardi, forse la sua scelta tardiva rende più complesso intervenire in tempo, forse lei stessa non è mai veramente libera neanche dopo la denuncia, ma forse troppo male è stato seminato perché possa uscirne redenta e vittoriosa… i tanti “forse” che perseguitano una donna, ne lacerano la memoria, certo, ma divengono per lei “forse” l’unica certezza di un riscatto possibile.

di Loredana De Vita