Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni

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di Vincenzo Vacca.

In questi giorni viene ricordata l’ approvazione dello Statuto dei lavoratori. Esattamente cinquanta anni fa, il 20 maggio 1970, i rapporti lavorativi all’interno delle fabbriche medie e grandi venivano regolamentati, garantendo una serie di diritti e ponendo fine a uno strapotere padronale che dettava legge all’ interno delle aziende. Come si disse in quel periodo, la democrazia entrava nelle fabbriche e forniva una serie di tutele a chi ci lavorava. Finalmente veniva applicata nei luoghi di lavoro, almeno in quelli con una certa dimensione, la Costituzione che, non dimentichiamolo, al suo primo articolo recita che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quindi, se il lavoro riveste una funzione centrale nella nostra architettura istituzionale, esso andava e va tutelato, non solo per garantire i diritti dei lavoratori, ma anche nella consapevolezza che quanto più questi ultimi vengono riconosciuti come soggetti di diritti tanto più il lavoro eseguito da loro raggiunge il suo intrinseco fine. Infatti, è soprattutto attraverso il lavoro, nelle sue varie forme, che nasce e si consolida uno spirito comunitario.

Lo Statuto dei lavoratori ratificava, pertanto, la centralità del lavoro nella gestione del mondo dell’ economia. Con quella legge, il cui padre fu Giacomo Brodolini, e dopo di lui furono Gino Giugni e Carlo Donat Cattin a impegnarsi attivamente per la definitiva approvazione, si coglievano i frutti delle battaglie politiche e sindacali degli anni 60, in particolare, le lotte dell’ autunno caldo che vide, tra l’ altro,. l’ unità dei sindacati confederali e ciò diede una forza propulsiva maggiore a tutto il movimento sindacale. Per sommi capi, voglio ricordare cosa prevedeva la legge in questione: era proibita ogni selezione o discriminazione dei dipendenti in base alle loro opinione politiche, l’uso di guardie giurate in funzione repressiva e di impianti audiovisivi per finalità di controllo, venivano vietati i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo e così via. Come si vede veniva garantita, sostanzialmente, la dignità del lavoratore.

In quel periodo c’era un Governo di centro sinistra che vedeva all’opposizione i comunisti, i quali sullo Statuto dei lavoratori si astennero. Anni dopo, riconosceranno che. l’ astensione fu un errore. La legge inaugurò una stagione politica, gli anni 70, che si caratterizzò per una serie di importanti riforme. Basti pensare alle leggi sul divorzio e sull’ aborto, alla abolizione dei manicomi, al nuovo diritto di famiglia, alla creazione del sistema sanitario nazionale ovvero alla universalità del diritto alla salute. In questi mesi stiamo apprezzando particolarmente l’esistenza del SSN, vale a dire che lo Stato italiano garantisce il diritto alla salute sia al ricco sia al povero.

Gli anni settanta del secondo dopoguerra vengono ricordati quasi sempre per la violenza che li funestò: lo stragismo neofascista, il terrorismo rosso, l’inizio dell’attacco frontale allo Stato da parte dei corleonesi. In realtà, quel decennio rappresentò per la nostra Repubblica un poderoso salto in avanti in termini di diritti civili e sociali. La società italiana era cambiata molto nel profondo, come dimostrò plasticamente l’esito del referendum sul divorzio. Si era molto più sensibili a chiedere le tutele giuridiche volte a garantire scelte di vita libere, non più segnate definitivamente e arcaicamente dal genere e dal censo.

Insomma, una stagione riformista che cambiò il volto dello Stato, dando una ulteriore applicazione ai principi della Costituzione. Indiscutibilmente fu reso possibile, come accennavo prima, dalle battaglie del decennio precedente, ma il fatto che avevamo e abbiamo una Carta Costituzionale avanzata e moderna rese possibile, da un punto di vista istituzionale, che quelle istanze che venivano dal “basso” avessero uno sbocco normativo. La stagione politica di cui sto parlando si concluse con una altra legge che riguardava una specifica categoria di lavoratori. Nel 1981, veniva approvata la legge che smilitarizzava e sindacalizzava la Polizia. Quest’ultima fino ad allora era denominata “Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza”. Dall’81, diventava “Polizia di Stato”. Quindi, anche quei lavoratori in divisa acquisivano una serie di diritti, ma soprattutto si stabiliva un migliore e diverso rapporto tra poliziotto e cittadino.

Negli anni ottanta, cambia tutto. Nel senso che la centralità del lavoro viene meno a causa di una diversa modalità di produzione e di consumo, ma soprattutto di una diversa divisione internazionale del lavoro. Il lavoro torna a essere una merce, un mero costo.
Questo spazio non consente di approfondire i cennati cambiamenti. Mi limiterò solo a evidenziare la necessità di uno Statuto dei lavori che vada a disciplinare le innumerevoli figure lavorative che sono emerse in questi ultimi anni. Infatti, lo Statuto dei lavoratori del 1970 ha dato importanti risultati per un mondo del lavoro tipico di quegli anni. Adesso diventa necessario andare a garantire un mondo del lavoro profondamente cambiato al punto che dobbiamo parlare di un mondo dei lavori.

Come noto, in diversi aspetti salienti, lo Statuto dei lavoratori è stato modificato, penalizzando i lavoratori. Una operazione giustificata come mezzo per uscire dalle crisi aziendali, ma resa possibile soprattutto da sindacati indeboliti. Una conseguenza della mancanza di un pensiero alternativo in ordine allo straordinario passaggio di epoca che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo.
Per dirlo in modo molto sintetico, mentre con la società industriale era presente e fortemente pregnante una capacità diffusa e profonda di garantire i soggetti deboli, con la società post industriale questo è venuto meno. Ecco perché uno Statuto dei lavori potrebbe costituire una ripresa della difesa dei nuovi lavoratori.