“Non colpevole” o “Innocente”?
di Vincenzo Vacca
Di uomini che odiano le donne ossia di femminicidio bisogna continuare a parlarne. Ogni terribile notizia di un omicidio di un uomo nei confronti di una donna non dobbiamo mai relegarla con noi stessi, e preciso noi stessi cioè noi uomini, a un ennesimo fatto di cronaca nera che vede come vittima una donna.
Il dramma del femminicidio è innanzitutto una questione irrisolta di noi uomini anche di quelli che si dicono che mai commetterebbero un gesto criminale e tanto meno di quel tipo.
A tal proposito voglio ricordare che l’ art. 27 della Costituzione recita, tra l’ altro:”…L’ imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva…”.
Quasi tutti i costituzionalisti sono concordi nel ritenere che i Costituenti utilizzarono l’ espressione “non colpevole” e non quella di “innocente“, perché la categoria di innocenza è metagiuridica. In una comunità nazionale come la nostra nessuno può considerarsi privo di alcuna responsabilità in ordine all’ andamento delle cose. Naturalmente, non mi riferisco a responsabilità penali che sono personali, ma ad altro genere di responsabilità. La direzione verso cui va una comunità è determinata dalla natura delle relazioni sociali che si costruiscono e per le quali tutti hanno il loro briciolo di responsabilità.
Tenendo conto di ciò, se vogliamo veramente affrontare come cittadini l’intollerabile fenomeno del femminicidio non possiamo non porci il problema delle relazioni di genere.
L’ omicidio di una donna che prova a sottrarsi da una relazione non è che l’ atto estremo, violento, di una struttura subculturale che è stata introiettata in un immaginario maschile. Quindi, il confine è molto labile tra un noi, intendendo per noi gli uomini che si ritengono completamente avulsi da certi istinti omicidi, e un loro, intendendo per loro coloro che commettono l’ assassinio di una donna.
Quest’ ultima odiata a tal punto che si è arrivati a uccidere i comuni figli, pur di crearle quanta più sofferenza possibile.
Ritengo che questi terribili e troppo frequenti episodi criminali siano anche il frutto di persistenti atteggiamenti di non riconosciuta parità tra i generi.
La parità tra uomo e donna la si verifica non nelle proclamazioni di rito, ma nella vita concreta di tutti i giorni.
Troppi uomini si stracciano le vesti nel dichiararsi convinti assertori della parità in questione, ma non si comportano coerentemente con quanto da essi sostenuto.
A questo proposito, voglio fare un esempio: quante volte, quando ci si ritrova tra soli uomini per lo più, si giudica una donna per la sua vita sessuale (vera o presunta non ha alcuna importanza). Anzi, spesso per colpire un suo prestigio professionale o artistico, a mezza bocca o esplicitamente si fa riferimento ad una supposta virtù femminile violata, sottintendendo che una donna deve prima di tutto rispettare certi canoni comportamentali che la società, tutto sommato, si aspetta vengano adempiuti.
Nonostante i passi avanti che sono stati fatti negli ultimi decenni, resta ancora in piedi una sorta di “controllo sociale” non dichiarato, ma esercitato, volto a quello che si ritiene l’ esatto comportamento di una donna.
Non sarà mica un caso che tanti per offendere una donna pronunciano quel pesante termine che vuole indicare che una donna ha o ha avuto diverse relazioni con altri uomini, magari anche facendosi pagare, mentre se si vuole offendere un uomo non si fa ricorso a termini che evocano i suoi comportamenti sessuali. Anzi, si utilizzano termini che vogliono evocare una sua mancanza di “virilità”.
Come non mai, in questi casi le parole sono importanti.
Le parole determinano il mondo, scavano inesorabilmente nelle coscienze.
È chiaro che anche questo contribuisce a costruire una subdola idea per la quale la propria compagna non è una donna che ha un libero rapporto d’amore, e che può anche finire, ma diventa una una forma di proprietà da parte del maschio che si sente defraudato, se rimane solo.
In questo gioca un suo ruolo anche la paura della derisione degli altri per il fatto di essere stati lasciati.
Sono consapevole che il fenomeno del femminicidio è un fenomeno complesso. Non a caso esiste una letteratura scientifica e non sterminata, ma con le mie modeste osservazioni ho voluto evidenziare una certa ipocrisia che ha ancora una sua diffusione.
La verità è che il protagonismo femminile ha messo a nudo le fragilità maschili. Quella che potremmo chiamare la femminilizzazione della società impone una radicale, nuova e migliore impostazione del genere maschile, a partire dal tipo di educazione alla vita di relazione che riceviamo da piccoli in famiglia.
Non è solo una questione, per quanto importante, di rispetto delle donne, ma di riconfigurare in modo complessivo le relazioni uomo/donna, alla luce di una diversa presenza femminile nella società, in tutti i suoi aspetti.
Noi viviamo uno scarto rappresentato da un ordinamento giuridico, sempre da migliorare, che garantisce la parità di genere, con un senso comune che ha ancora troppe radici in una cultura patriarcale.
Ecco perché all’ inizio accennavo al fatto che ognuno di noi ha il suo briciolo di responsabilità per ogni evento che accade all’ interno della comunità.
Se non si radica questo genere di consapevolezza, continueremo ad essere tra i Paesi dove maggiormente avvengono i femminicidi.
Infatti, il termine “femminicidio” è stato utilizzato al fine di sottolineare che non stiamo parlando di un omicidio comunemente inteso. Ci sono, ovviamente, anche delle donne che uccidono degli uomini (in realtà, sono pochi casi). Quel termine sta a significare che parliamo di omicidi perpetrati sull’onda di un viscerale odio nei confronti di chi si sta ammazzando. Un odio che viene da lontano, non nasce in un determinato momento di rabbia. Diversi anni fa, venivano sciaguratamente definiti “delitti passionali”.
E anche questo, sta a dimostrare l’ importanza delle parole. Parole usate non per descrivere una realtà, ma per occultarla.
Abbiamo di fronte una strada ancora in salita, ma occorre percorrerla, se vogliamo veramente annoverarci tra i Paesi civili.