di Vincenzo Vacca.
Come noto, il Ministro della Salute, Roberto Speranza, sta emanando le nuove linee di indirizzo per l’interruzione volontaria della gravidanza con riferimento all’ utilizzo della Ru486. Le nuove direttive ministeriali si erano rese necessarie alla luce del fatto che la Presidente leghista umbra Donatella Tesei aveva stabilito per la Regione che guida l’ abolizione della delibera che consentiva l’aborto farmacologico senza ricovero. La Tesei, infatti, aveva deciso di ripristinare l’ obbligo del ricovero richiamando le linee guida del Ministero risalenti al 2010 emesse subito dopo l’ introduzione della menzionata Ru486 e che consigliavano il ricovero in ospedale per tre giorni, lasciando, però, libera scelta alle Regioni.
L’ esperienza medica che ne è seguita a livello mondiale aveva reso possibile l’ aborto farmacologico in ambito ambulatoriale, senza alcuna necessità di ricovero ospedaliero. e, quindi, diverse Regioni, tra cui l’Umbria, avevano abolito l’obbligo del ricovero.
Ecco perché il Ministro Speranza, sulla base delle evidenze scientifiche emerse in tutti questi anni, nonché acquisendo i pareri del Consiglio di Sanità e della società di ginecologia e ostetricia, ha annunciato che “l’ aborto farmacologico è sicuro. Va fatto in day hospital, nelle strutture pubbliche e private convenzionate, e le donne possono tornare a casa mezz’ora dopo aver assunto il medicinale”.
Alla luce di quanto è successo, credo che sia opportuno fare una serie di valutazioni in tema di aborto.
A parere di chi scrive, il provvedimento restauratore della Tesei che aveva suscitato molte critiche e proteste rientra a pieno titolo nei sistematici tentativi che, da quando è stata approvata la legge sull’aborto sono iniziati, provano a minare gli effetti della legge stessa.
Si fa finta di dimenticare che anche prima della legge l’ aborto veniva praticato, naturalmente in modo clandestino e con effetti devastanti, spesso mortali, per le donne che vi facevano ricorso. Imperversava una ipocrisia nazionale su questo vero e proprio dramma che si riteneva di poterlo affrontare solo punendolo penalmente e con uno stigma moralistico nei confronti delle donne che abortivano.
Furono soprattutto i radicali a battersi per porre fine a quella situazione indegna per un Paese moderno e civile. Da un punto di vista culturale, i radicali fecero davvero tanto per cambiare la percezione del Paese in ordine alla clandestinità degli aborti portando avanti la battaglia per un referendum abrogativo del reato di aborto.
Invece, il Parlamento si fece carico del problema regolamentando la materia con apposita legge. Una legge figlia del compromesso tra tutti i partiti laici e di sinistra, ma avversata dalla Chiesa e dalla DC. Bisogna, però, riconoscere che la Democrazia Cristiana, pur votando contro, non mise in atto ostruzionismi parlamentari.
Dopo la promulgazione, la legge, contraddistinta dal nr. 194, veniva subito avversata e sottoposta a referendum, ma l’esito referendario ne rifiutava l’ abrogazione. Questo referendum e quello sul divorzio avevano dimostrato che la mentalità del nostro Paese in materia di diritti civili era cambiata profondamente.
Ma c’è una forte componente del nostro Paese, trasversale nella società e in alcune forze politiche, che non ha mai digerito il riconoscimento effettivo dei pari diritti di genere, ma soprattutto l’ autodeterminazione delle donne nella sfera affettiva e sessuale. Non è mica un caso che solo nei primi anni 80 abbiamo abolito il delitto d’onore. Questo ha comportato, come accennavo poc’ anzi, una continua messa in discussione, attraverso vari sistemi, della legge 194, a partire dall’ altissima percentuale degli obiettori di coscienza. Sembra che tra ginecologi e anestesisti la percentuale raggiunga il 70%.
Negli ultimi anni assistiamo non più ad un attacco frontale alla legge, ma a un rispolverare un atavico paternalismo, secondo il quale le donne non sarebbero capaci di stabilire cosa è bene per loro. Lo dimostra il fatto che l’aborto farmacologico venga considerato da qualcuno, non essendo una pratica medica invasiva, una sorta di deresponsabilizzazione da parte delle donne che decidono di abortire.
A questo proposito, è opportuno ricordare che nei Paesi in cui si fa maggiore ricorso alla pillola abortiva, il numero complessivo degli aborti non è aumentato.
Ma il punto vero è un altro e cioè che ancora si ritiene che una donna che decide di abortire lo farebbe con una certa “leggerezza”, trascurando il dramma che sta affrontando e che, proprio per questo, esso deve uscire da una dimensione strettamente privata ed essere affrontato collettivamente, secondo quanto stabilito dalla legge.
Perché un uomo scrive di queste cose?
Non solo per una forma di solidarietà. Tra l’altro, la solidarietà in questo ambito può apparire, se non addirittura essere, insincera. Scrivere e mobilitarsi per queste tematiche da parte di tutte/i è importante perché, quando una democrazia inizia a impoverirsi, i primi segnali sono quelli contro i diritti delle donne, e del futuro della democrazia, sia uomini che donne, dobbiamo tutti farci carico.