Fabrizio De André, scomparso l’11 gennaio di 22 anni fa, oggi 18 febbraio avrebbe compiuto 81 anni. Ciò che colpisce è il sentimento al tempo stesso di perdita e di presenza perché la sua opera e il suo pensiero rimangono intatte nella sfida del tempo rinnovandosi nel passaggio tra le generazioni.
E’ quello che succede ai grandi autori che sono riusciti a dare alla loro opera un valore universale, a interpretare sentimenti collettivi. Certo oggi, in questa epoca così travagliata, la mancanza del suo pensiero si fa più acuta.
Resta la grande lezione di un canzoniere che è un simbolo di attenzione per chi di solito attenzione non ha, quegli ultimi della società che sono i veri protagonisti di un canzoniere dal valore inestimabile. Fabrizio De André è stato un intellettuale dotato di una voce straordinaria che si è votato alla musica dopo il successo ottenuto da Mina con “La canzone di Marinella”, (“senza di lei sarei stato un pessimo avvocato” raccontò) e che, come accade appunto solo con i grandi autori, ha portato fino a vette creative mai più raggiunte, il tessuto creativo generato dalla scuola genovese, quella di Tenco, Bindi, Paoli, Lauzi. De André aveva una straordinaria capacità di rielaborare i materiali, fossero le canzoni di Brassens (“Il gorilla”), l’antologia di Spoon River, l’opera di Edgar Lee Master da cui ha tratto “Non al denaro non all’amore né al cielo”, un album del 1971 che ancora oggi rimane tra i capolavori assoluti della musica italiana, le intuizioni di chi gli lavorava vicino. Come quella di Mauro Pagani che, nel 1984, in anticipo sui tempi, e per questo suscitò l’entusiasmo di David Byrne, lo ha portato nei territori della World Music, in un viaggio attraverso le musiche del mediterraneo che ha generato “Creuza de ma”, un album cantato in genovese dal respiro internazionale.
E come non dare un significato simbolico oggi a un’opera basata sul concetto del mare come elemento unificante, vitale, di incontro tra culture diverse? Nel momento in cui si ricordano i vent’anni dalla morte, viene da pensare al valore quasi evangelico dei testi di un autore non credente, ma che aveva rielaborato i vangeli apocrifi (“La buona novella”) e che per tutta la vita si è occupato di chi “viaggia in direzione ostinata e contraria”. Meglio di qualsiasi ragionamento è il testo di “Smisurata preghiera”, ultimo brano dell’ultimo album della carriera di De André, “Anime salve”, scritto con Ivano Fossati e pubblicato nel 1996. Il testo è dichiaratamente ispirato al “Gabbiere” di Alvaro Mutis e lo stesso De André sentì il bisogno di fornirne un’interpretazione: “E’ una specie di riassunto dell’album stesso: è una preghiera, una sorta di invocazione… un’invocazione ad un’entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l’invocazione è perché si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze. Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi… dire ‘Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni…’ e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze. La preghiera, l’invocazione, si chiama “smisurata” proprio perché fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso”. E intanto restano questi versi: “Coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta come una malattia come una sfortuna come un’anestesia come un’abitudine per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità”.
La morte del camorrista Raffaele Cutolo porta di nuovo ad ascoltare l’attualità di Don Raffaè: “Io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere oinè”: è l’attacco di una delle più note canzoni di Fabrizio De Andrè, cantata in napoletano e ispirata alla figura del camorrista, pluriomicida e sanguinario, e alle drammatiche condizioni della vita carceraria. ‘Don Raffaè’ fu un successo e in seguito venne ripresa anche da Roberto Murolo, massimo interprete della canzone napoletana d’autore.