Corrispondenze dell’esule – “Sedie di fantasia”

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Corrispondenze dell’esule

Rubrica di Annamaria Torroncelli

Una nuova rubrica di Annamaria Torroncelli, napoletana verace e romana d’adozione. Si definisce esule in terra straniera da quando, molti anni, fa una sua carissima amica le regalò un libro di fattarielli napoletani per il suo compleanno e nella dedica scrisse “Alla mia carissima Annamaria, esule in terra straniera.”.

È un secolo che più di un milione di napoletani sopravvive con poche migliaia di stipendi e con compensi variabili aggiuntivi raggiungibili attraverso una produzione quotidiana di servizi di fantasia (Luciano de Crescenzo, Cosi parlò Bellavista, Milano, 1977, p.16)

Corrispondenze dell'esule - "Sedie di fantasia"

Una volta, neanche tanto tempo fa, all’incirca fino all’arrivo prepotente dei computer e dei telefoni cellulari nella nostra vita quotidiana, anni ’80, direi, le differenze tra una città e l’altra erano palpabili. Bastavano un centinaio di chilometri, talvolta anche meno, per vivere mondi diversi.

E così succedeva che ogni volta che “scendevo” a Napoli, scoprivo aspetti sconosciuti di antica cultura, pezzi di una tradizione, oggi, quasi del tutto scomparsi, ingoiati da una  globalizzazione onnivora e infestante.

La chiesa, ad esempio, territorio di memoria storica per eccellenza, costituiva per me un’autentica miniera di consuetudini sconosciute o dimenticate.

Chi di voi ricorda ancora, il “permesso” che si chiedeva occupando un posto a sedere che aveva  alle spalle altre persone già accomodate?

Per la richiesta bastava un semplice ammiccamento, meglio se accompagnato da un sorriso discreto. La risposta era un lieve cenno del capo. Cenni impercettibili che dicevano altro. Si chiedeva scusa, seppure ad un estraneo, delle spalle che si sarebbero date: un gesto di delicatezza e riguardo nei confronti di chi ci è intorno. Forse un retaggio della vuota tradizione spagnoleggiante? Forse. Ma  quel rispetto, discreto e silenzioso, che azzerava le differenze di età e di ceto sociale, mi piaceva.

Ricordo benissimo che, bambina di sette o otto anni, chiesi a mia nonna il perché di quel gesto, per me incomprensibile. La spiegazione che ne seguì fu una piccola lezione di galateo che io non ho più dimenticato. Una lezione di vita, direi oggi. Quell’accenno di permesso era dimostrazione di attenzione al resto del mondo. Un modo per imparare ad entrare in punta di piedi nel territorio degli altri.

La chiesa, a Roma negli anni ’60, mi appariva più moderna, disinvolta; i riti religiosi ondeggiavano tra le prime innovazioni di sapore conciliare e le secolari resistenze conservatrici, inesauribile fonte d’ispirazione per la satira di Belli e Trilussa. A Napoli, invece, riti e tradizioni sembravano immobili in un tempo senza tempo.

La chiesa era un palcoscenico privilegiato per la rappresentazione di vizi e virtù di una città unica, assolutamente irripetibile. Se la funzione religiosa era troppo lunga, noiosa o la predica banale e senza mordente, bastava guardarsi intorno e, subito, sceneggiature accattivanti quanto surreali avrebbero sostituito il tiepido canovaccio rituale.

Una per tutte, il rito delle sedie. Uno spettacolo garantito.

Nelle chiese napoletane, le sedie impagliate sono state utilizzate fino all’avvento dei più attuali scanni, ma in alcune zone più popolari e di antica tradizione ancora sono ampiamente utilizzate.

I fedeli le trovavano, accatastate in ordine, all’ingresso della chiesa; ognuno, entrando,  ne prendeva una e la sistemava nella sua postazione preferita. Nella massima autonomia (e disordine!), secondo la migliore tradizione partenopea che affonda le sue radici nella cultura della libertà per antonomasia,quella greca.

Nei giorni di precetto o durante le celebrazioni delle più importanti festività religiose,  era o’ seggettaro, il mitico quanto unico impresario del fitto delle sedie in chiesa, a sistemarle nel modo più idoneo al passaggio dei fedeli e dei religiosi.

O’ seggettaro, da non confondersi con o’ seggiaro, che costruiva sedie e le impagliava o con l’impagliasegge che provvedeva solo alla riparazione del sedile in paglia,  da buon imprenditore stabiliva il costo giornaliero dell’affitto della sedia, prevedendo anche tariffe di abbonamento o per nucleo familiare. Era previsto anche il pagamento per terzi: la sedia era offerta all’amico, al familiare, alla ragazza del cuore come un caffè, come un fiore.

Quando l’imprenditore passava (durante la Messa, ahimè!) per la riscossione del tributo, se c’era un già pagato era sua premura informare il beneficiario del dono con un ammiccamento, un cenno che palesasse chi fosse il gentile offerente.

È facile immaginare il movimento, la distrazione che creava una tale attività: tra l’individuazione dei clienti, giornalieri e abbonati, contabilizzazione del dovuto, pagamento della tariffa, contrattazione per particolari categorie di avventori, indigenti e avari, nel tentativo di ridurre il dovuto, si consumava il tempo dell’intera celebrazione. Si iniziava non appena il sacerdote saliva sull’altare per terminare poco prima della benedizione ai fedeli, e se si tiene conto che, nel frattempo, si svolgeva anche la questua, e non di rado, anche la vendita del settimanale Famiglia Cristiana, è facile immaginare come la Messa si trasformasse in altro. Una manifestazione sociale a forte connotazione commerciale.

Alla Messa di mezzogiorno, poi, le distrazioni aumentavano: lo sfoggio degli abiti, l’esibizione delle famiglie, quelle consolidate e quelle in fase di formazione, l’ostentazione delle amicizie importanti. Insomma, trovare il giusto raccoglimento per una preghiera, per una posta di rosario,  non era facile.

Ma di certo, non ci si annoiava. Mai.