Zahira Ziello e la “Sibilla”, vergine nera della tradizione clas-sica

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Zahira Ziello

Zahira Ziello, giovanissima scrittrice del casertano, presenterà la sua prima raccolta di poesie “Sibilla” il 6 Aprile presso il caffè letterario napoletano “Il Tempo del Vino e delle Rose”.

L’autrice, dedita alla cultura e all’arte, si occupa anche di teatro, in particolare di drammaturgia. La sua formazione classica si rispecchia nel volume, dove emerge la Sibilla della tradizione, figura avvolta nell’oscurità e divinamente incaricata dell’onere della verità, punto focale del libro e filo conduttore delle poesie.

Come hai fatto a capire che la poesia era il mezzo più congeniale per espri-mere i tuoi pensieri? Ci sono state particolari influenze letterarie nella tua scrittura?

Suppongo che la propensione alla poesia sia spiccatamente endemica, io non la in-tendo come mezzo, né l’adopero per dare sfogo ai miei pensieri, sono fermamente convinta dell’inesplicabilità dell’arte, ma in un mondo sottoposto a una prosa utilita-ristica, ho la pretesa di riappropriarmi dell’inutile nonostante ne tema la mercifica-zione. Della poesia si sa che essa sia nata per aggiungere un suono vocale alle musiche tribali, ciò nonostante, io credo di aver ereditato una poesia che è solo scritta, estetica perché capace di strutturare un’architettura che riempia il bianco della pagina e, nel contempo, ricca di metafore e riferimenti che tentano di ampliare lo spazio costretto in cui è articolata la narrazione.

Le poesie di “Sibilla” sono autobiografiche o hai immaginato anche emozioni e situazioni non tue?

La donna descritta non è donna per ricalcare la mia personale percezione del vero, ma è femmina in quanto sacerdotessa: Sibilla, come detto nel titolo, la donna in cui le virtù dionisiache sono pronunciate dalla voce del dio Apollo, cui lei presta la sua poesia. A differenza della concezione cattolica che interpreta la donna come ver-gine intatta, candida e per questo illuminata dal bianco sapere divino, la Sibilla clas-sica è una vergine nera che opera nell’occulto, nell’oscurità del proprio antro, e sconvolta dalla propria conoscenza, dà interpretazioni sofferte, vaticini luttuosi, apocalittici. Proprio a causa della sua difficoltà nefasta, autori classici come Ampe-lio e Petronio rinchiusero la Sibilla in una caverna o in un’ampolla perché la distru-zione da lei narrata, non potesse ledere la finta integrità umana.

Qual è la sensazione che hai preferito descrivere e qual è dunque, tra quelle che hai scritto, la poesia a cui sei più legata?

La sensazione, che a mio parere prevale sulle altre, è senz’altro la consapevolezza che nulla è dettato dalla volontà dei soggetti, piuttosto c’è una realtà imperiosa che s’impone al di fuori delle logiche ma al di dentro degli uomini. La scenografia è un riflesso, non il contorno, l’esterno è disastrato perché l’interno non conosce ordine, la supremazia imposta agli animi fa solo male ai corpi che distrutti scavano in sé alla ricerca di chi in origine li compose. La ricorrenza del termine “vene”, ad esem-pio, riguarda la stirpe degli uomini, il loro desiderio di spiegare a se stessi cos’è che esiste, sviscerando, per trovare la prima tra le vene che fu loro. Si aggrappano stretti al groviglio che permette loro di pulsare e, ripercorrendolo sperano di giun-gere a una quiete ormai distante, perché il groviglio nel tempo ha subito troppi in-trecci, troppi intoppi, troppe toppe. Si vive nel ricordo della colpa e nel suo castigo. Forse, il componimento che descrive con chiarezza questo tema è Machine.

Come hai sviluppato il tuo libro? Hai stabilito a priori l’articolazione del libro o hai scritto di getto dando voce ad emozioni e riflessioni e solo dopo il pro-cesso creativo hai deciso come scandirle nelle pagine di “Sibilla”?

Questo libro rifiuta ogni collocazione secolare, si propone di narrare un’umanità già avvenuta ma descritta come premonizione, a indicare che quel che accade, già ac-cadde, in un intreccio ciclico che non pretende risoluzione perché è risolto nel dub-bio e nella condanna. Ovidio dice della Sibilla che visse tanti anni quanti sono i gra-nelli di sabbia, per questo nelle sue canoniche rappresentazioni, possiamo osser-varla rinsecchita ma maestosa nella propria longevità, desiderosa solamente di esaurire i propri giorni. La mia Sibilla, invece, è giovane in eterno, le è concesso solo desiderare l’età della maturità; è costretta non solo al patire della conoscenza ma anche al tormento dell’eterna novità che il sapere comporta: la meraviglia per la propria nascita non smetterà mai di schiacciarla e, seppur ne è consapevole da sempre, non smetterà mai di vedere negli uomini l’ipocrisia dei loro costumi e le condanne che essi ignorano. Non si fa portavoce della verità, si rinchiude, non anela al nuovo poiché per lei ogni spiraglio è fonte di incessante e indesiderato sgomento. Nell’approcciarsi a questa raccolta è necessario disporsi come un ascol-tatore curioso di una realtà che non combacia con il quotidiano. La mia Sibilla scrive versi imprigionati, esprime le esecrabili crisi future in un sovrapporsi confuso di distruzioni, che l’uomo generalmente ignora poiché l’ingombro sarebbe insosteni-bile.

di Emilia Della Rotonda