Oggi mi andava di poter porre l’accento su una tematica particolare: è vero, soprattutto negli ultimi tempi si parla tanto della donna, della violenza di genere, ma ci facciamo mai caso che c’è una lama sottile e tagliente che affligge il genere femminile, e talvolta neanche ce ne accorgiamo? Parlo dell’oggettivazione della donna, della prevaricazione dell’uomo sul genere femminile che, nonostante varie lotte nel tempo per la parità di genere, esiste ancora oggi, nella nostra società cosiddetta evoluta! La storia insegna che la donna veniva non di rado schiavizzata e costretta a rimanere in casa per svolgere le mansioni domestiche e badare ai figli, mentre l’uomo poteva lavorare per guadagnare la pagnotta e dirigere il mondo. Le donne non avevano nessun potere e nessun diritto. La maggior parte di questi erano negati insomma, in un mondo del tutto maschilista e dove la donna era solo un oggetto. Ancora oggi però, nonostante l’evoluzione ed il progresso della società, il tema della donna oggetto è un elemento di forte discussione nell’ambito dei diritti dell’uomo. A lavoro come in qualsiasi luogo della società, gli uomini hanno praticamente il monopolio del potere, troppo spesso si avvalgono del loro status “superiore” addirittura per fare avances sessuali non gradite ( sguardi maliziosi, pizzicotti, carezze sul sedere ) fino ad arrivare a proposte chiare e tonde accompagnate dalla minaccia di licenziamento se vengono respinti. C’è da dire poi che molti uomini sembrano convinti che qualsiasi donna gradisca ogni forma di attenzione sessuale e ne sarà lusingata, sembra che il messaggio del maschio sia sempre lo stesso: “ il tuo dovere è quello di soddisfarmi, tu non sei uguale a me, tutto ciò che hai è solo il tuo corpo”.
Mi soffermo su un punto molto attuale, un punto che è sotto gli occhi di tutti, ma che nella maggior parte dei casi non viene notato o, peggio, nonostante venga notato viene banalizzato: donna, tv e pubblicità. Si, proprio la pubblicità, che ci bombarda ogni giorno di prodotti nuovi e/o convenienti da acquistare. Fin qui tutto normale. Ma possiamo facilmente constatare come spesso e volentieri lo stereotipo femminile sia usato come esca comunicativa, un modello usato per vendere. Il problema è generale, non solo delle pubblicità, ma anche degli stessi programmi televisivi, quelli che, almeno in teoria, dovrebbero servirci per allietare le nostre serate dallo stress della routine quotidiana. Facciamoci caso: la rappresentazione della donna nei media è rimasta sostanzialmente la stessa: giovane, bella, poco vestita ed oggetto di desiderio sessuale. Ora, al di fuori del maschio che guarda con piacere simili programmi, andiamo più a fondo, passiamo bene a scanner la problematica. Vedersi in un corpo che non segue lo standard dettato dal marketing pubblicitario, porta la donna a sentirsi frustrata, inadatta, in continua ricerca di una “perfezione”!
Mi va di porre l’accento su un ultimo punto, molto importante sulla questione che stiamo affrontando: la donna oggetto DEVE soddisfare piaceri maschili, non può sottrarsi. Sembra quasi un obbligo, una legge non scritta ma che vive ancora oggi, e lo deve fare anche contro il suo stesso volere/piacere: parliamo di stupro. L’obiettivo primario è quello di umiliare, di soggiogare la donna e di accrescere nell’aggressore il senso di potere, di superiorità: l’uomo che stupra è uno spaccone insicuro che non ha altri mezzi per affermare la sua mascolinità. Gli effetti dello stupro possono essere devastanti per la vittima: danni fisici, emotivi, disgregazione della sua vita personale, sociale e sessuale. Per non parlare di eventuali denunce e quindi poi del dover ripercorrere momenti drammatici in tribunale di fronte a tante persone, soprattutto uomini, ed estranei. Spesse volte, e ne vediamo ultimamente di casi del genere, gli avvocati della difesa tendono a far passare il carico della colpa dall’accusato alla vittima stessa, cercano di dimostrare che la donna è leggera, che se l’è cercata.
Ho intervistato per i lettori di RoadTv Italia la dott.ssa Antonella Barretta, pedagogista e donna molto sensibile sulla problematica dell’ oggettivazione della donna:
Antonella, tu che hai sempre un occhio attento su tutte le problematiche legate alla donna, come potresti spiegare questa concezione arcaica ed anacronistica della donna oggetto?
Ciao Fabio, innanzitutto ti ringrazio di questa intervista per poter dire la mia su questa tematica così importante e grazie per questo tuo piacevole modo di fare informazione molto molto efficace nella suo linguaggio semplice però sempre con uno sguardo attento competente e centrato sull’argomento che mira a promuovere una forma di riflessione sociale e sociologica in tempi in cui abbiamo veramente bisogno di allenare il pensiero. Ora, entrando nell’argomento e nel vivo della domanda che mi hai rivolto, evidentemente se in duemila anni di storia la donna non si è ancora completamente riscattata dal vedersi riconosciuto un ruolo autonomo ed indipendente rispetto all’uomo e il percorso verso una completa emancipazione sulla base del riconoscimento di un’uguaglianza e di una parità sostanziale e non solo formale non è giunto ancora al suo traguardo direi che qualcosa non sta andando come dovrebbe o comunque non abbiamo ancora imboccato la direzione giusta. Fabio intanto partirei da una considerazione di fondo perché forse anche nei termini di uguaglianza e parità si nasconde qualche insidia, perché per quanto abbiamo istituito un ministero o degli assessorati per questi due obiettivi non ci siamo accorti che in fondo potrebbero assumere anche dei significati fallaci, dal momento che la considerazione di base sulla quale dovrebbero muoversi poi tutte le riflessioni di cui stiamo discutendo è che la parità così come l’uguaglianza può essere garantita solo se riusciremo a parlare in termini di salvaguardia delle differenze e delle diverse di tutti anche di casi singoli di ogni categoria e che dunque la vera conquista consisterebbe nel considerare tutti sia gli uomini che le donne ugualmente diversi e che se di parità si deve parlare non deve essere riferita al genere ma alle opportunità che devono essere garantiti ad entrambi i sessi. La parità non si esprime cioè nel riconoscere diritti uguali per quantità e qualità ma quando si garantiscono le stesse opportunità di accesso e si assicurano le stesse condizioni di godimento di quei diritti.
Che cos’è l’oggettivazione femminile?
La figura della donna è stata soggetta nei secoli e nelle diverse culture a vari “ruoli”. Il processo di emancipazione della donna ha radice storiche millenarie ed ha percorso i secoli ma probabilmente non si è ancora concluso almeno non nei fatti. Nell’Antica Grecia, la donna era “confinata” tra le mura domestiche, “utile” solo a procreare o ad accudire i figli. Durante il Medioevo la donna comincia ad occuparsi sia della gestione di ostelli e botteghe sia della cura dei campi. Le donne di estrazione più umile si sposavano in adolescenza, mentre le donne nobili già da bambine erano promesse spose. Dal ‘900 ad oggi la donna sembra acquisire sempre più spazio ed autonomia, sembra a poco a poco occupare ruoli di rilievo sia a livello sociale che politico. Ma è effettivamente così? Nonostante i tempi siano cambiati, il fenomeno dell’oggettivizzazione femminile permane in forme diverse ma sempre molto penalizzanti per la donna. Per quanto la donna possa occupare determinati ruoli, la sua figura viene spesso oggettivizzata e sessualizzata. Ma cosa significa esattamente “oggettivizzazione”? “L’oggettivizzazione è una strategia che consiste nel delegittimare una persona del suo essere tale deumanizzandola e trattandola come un oggetto o una merce Oggi nonostante l’ordinamento giuridico sancisca in maniera inequivocabile che non sono ammesse distinzione né di genere né di alcun genere ci ritroviamo con una cultura discriminatoria che fatica a rendere effettivi quei diritti: una Non dimentichiamo che i cambiamenti culturali sono quelli che impiegano più tempo almeno che non intervenga una rivoluzione qualcosa che cambi qualcosa.
Se l’uomo ha tante donne è un “figo” se la donna ha tanti uomini è una “poco di buono” …. perchè?
Semplicemente perché nella nostra cultura l’uomo deve impersonare il cacciatore e la donna la preda; l’uomo cosiddetto sciupafemmine acquista punti è visto con ammirazione, insomma è uno buono; sembra quasi che alla nostra giurisdizione beh per all’uomo sia concesso questa forma di poligamia nel senso di avere contemporaneamente più donne e senza per questo essere accusato, perché in fondo in fondo è giudicato un aspetto che attiene ad una qualità naturale dell’uomo anzi forse nella nostra di cultura è un elemento che serve a qualificarlo come tale per cui si sente commentare e ma questo non è uomo!!!! In questo poi si rivela quella considerazione della donna come figura che deve servire ad accrescere l’immagine dell’uomo, la donna che non importa chi sia ma che deve occupare un posto nel’harem dell’uomo affinché lui si senta un VERO UOMO, e che goda della REPUTAZIONE SOCIALE. Non è un caso che poi la stessa poligamia sia ammessa nelle culture maschiliste dove la donna è quasi un appendice dell’uomo. Per la donna le cose sono ben diverse…sono malgrado tutte etichettate per cui nonostante le conquiste ottenute anche in termini di libertà sessuale la donna è pur sempre costretta a nascondersi, mistificare, cercare un modo per non far comprendere che anche lei è libera di scegliere quali e quanti partners poter avere.
Ma se è vero che i corpi parlano di più della lingua, cosa ci raccontano i corpi delle donne in pubblicità o in Tv?
Vedi Fabio la pubblicità dovrebbe servire esclusivamente alle aziende a vendere di più e parallelamente ad influenzare le scelte di acquisto per indurre a comprare quel prodotto; e per farlo mettono in atto tutta una serie di strategie che hanno sì uno scopo commerciale ma che di fatto poi però lavorano sulla psicologia umana perché fanno leva sui desideri, sulle ambizioni, sulle aspirazioni, molto spesso anche sulle emozioni che il possedere un determinato prodotto può suscitare; in altri termini la pubblicità si serve di messaggi che apparentemente mostrano figure di donne molto belle ed attraenti ma che di fatto rimandano e favoriscono un concetto di donna che mortifica il loro valore perché appaiono oggettivizzate rispetto al fatto di essere utilizzate per creare subdole allusioni sessuali (del tipo scegliere quest’auto ti consentirà di poter godere del piacere quasi come se fosse una donna) oppure perché si mettono in evidenza solo e soltanto attributi fisici (donne molte spesso svestite di cui non si mostra neanche il volto) senza far riferimento alle loro abilità e capacità veicolando così un certo stereotipo di donna, di cui vittime spesso sono le stesse donne. Ora nel tempo la figura della donna nella pubblicità si è evoluta e a che punto siamo arrivati oggi? Negli anni ’50, nel secondo dopoguerra e nel periodo del boom economico, dove la forma principale di pubblicità avveniva sui giornali o negli spot televisivi che andavano in onda durante il Carosello la donna è modellata su due archetipi principali: la casalinga borghese e la mamma (archetipo in realtà non ancora del tutto scomparso). Di conseguenza la donna viene associata a prodotti per la casa, elettrodomestici, detersivi o cibo. Negli anni ’70 assistiamo alla sessualizzazione del corpo femminile Molte pubblicità tendono a sfociare in stereotipi sessisti e riflettono la società maschilista di quegli anni. La protagonista degli spot anni ’70 è sicuramente la donna femminile, sensuale e tentatrice. Per la promozione dei prodotti ci si avvale di una bellezza estrema e idealizzata del corpo femminile, con lo scopo di gratificare e attirare le attenzioni maschili: si parla in questi anni di “donna oggetto”. Solo nella seconda metà degli anni ’80 qualcosa cambia: vediamo le prime raffigurazioni di donna indipendente, centrata su sé stessa e sessualmente liberata. Per la prima volta le donne compaiono sul posto di lavoro, vestite al maschile e non più sole, ma anche in compagnia dell’altro sesso. Si assiste ad un primo accenno di emancipazione, tendenza che verrà ancora più accentuata negli anni successivi. Anni 2000: un ritorno agli stereotipi. Non è più la pubblicità ad adattarsi al consumatore, ma il consumatore a volersi avvicinare agli ideali di bellezza proposti dalla pubblicità, che si popolano di star del cinema e modelle famose, le quali contribuiranno a plasmare canoni estetici ben precisi delineando il “magro come bello”. Molte pubblicità dei primi anni 2000 riprendono alcuni stereotipi di genere degli anni precedenti. Le problematiche esposte non sono ancora state pienamente risolte (e tutt’oggi non lo sono ancora) e si ritorna a pubblicità che non esaltano particolarmente la figura femminile, anzi. Ci saranno alcuni brand che arriveranno addirittura ad erotizzare la violenza, suscitando numerose polemiche, come Dolce e Gabbana o Calvin Klein, i cui spot sotto riportati richiamano scene di violenze sessuali. Oggi invece sembrerebbe che la parola d’ordine della pubblicità del nuovo millennio sia Inclusività: La pubblicità si sposta anche su Web e social network. Cosa rappresenta lo stupro per l’aggressore?
Fabio io vorrei prima fornire qualche dato perché lo ritengo significativo sia della dimensione e sia delle caratteristiche del fenomeno di cui stiamo riflettendo.: secondo l’ultimo rapporto dell’Istat il 31,5 delle donne comprese nella fascia 16-70 anni ha subito nella propria vita qualche forma di violenza, il 20% ha subito violenza fisica il 21% violenza sessuale, ma il dato più impressionante è che il 5,4% ha subito forme gravi di violenza come lo stupro e il tentato stupro. E per provare a rispondere alla domanda la statistica indica che le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, amici e parenti e per la precisione Fabio gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche la violenza fisica è per la maggior parte opera dei partner o ex. Questo è un dato molto sintomatico del fatto che lo stupro parte da una condizione soggettiva dello stupratore indipendente dall’esistenza di una relazione o dal tipo di relazione con la vittima; anzi gli abusi in questione vengono commessi principalmente sulla partner che indica che l’affettività, il sentimento non allontano comportamenti devianti. Ad oggi non è stato ancora possibile delineare un identikit dello stupratore perché diversi ed eterogenei sono i profili psicologici dell’aggressore. In genere viene identificato o come il compensatore, cioe colui che avendo scarsa stima di sé attacca la donna per autorassicurarsi per rinforzare la propria stima e il concetto di mascolinità, o è il rabbioso colui che colpisce la donna donna per vendicarsi di quello che ritiene aver subito da loro, essenzialnete quindi per punirla, in questo caso è un uomo molto sicuro di sé che reagisce in maniera non pianificata, o è il dominatore per il quale lo stupro è l’atto predatorio verso un essere più debole da catturare e sottomettere, persone che si sentono superiori e considerano la donna a loro uso e consumo, oppure ancora è il sadico per il quale l’obiettivo è rappresentato dalle fantasie sessuali aggressive e che considera lo stupro ritualistico, in virtù del fatto che molto spesso o ha subito violenze sessuali o ha vissuto in ambienti sessualmente devianti, per cui può essere anche di buina famiglia, svolgere un ottimo lavoro occupare un buon ruolo sociale ed economico. Infine c’è l’opportunistico che è uno stupratore invece compulsivo per cui la violenza sessuale si associa ad altri crimini, quindi non c’è predeterminazione né uso particolare di violenza. Sicuramente sono persone vittime dei propri istinti, delle proprie fantasie perverse, in preda ad impulsi irresistibili; lo stupratore caccia le sue prede per sfogare la propria aggressività, per umiliarle nel corpo e nello spirito, giungendo a volte ad ucciderle. Sicuramente è difficile entrare nella sua mente è difficile capire i meccanismi che lo inducono ad assumere comportamenti violenti, ma se come abbiamo detto circa milione di donne che in italia hanno subito stupri o tentati stupri allora è importante conoscere la psicologia e le motivazioni di quelli che appaiono veri e propri carnefici soprattutto in considerazione del fatto che essi sono nascosti nell’ambito familiare. Siamo di fronte a profili psicologici complessi dove i fattori che possono aver influito sulla personalità dello stupratore e sull’agire in modo violento sono eterogenei: tra questi senza dubbio l’educazione in famiglia che ha favorito modelli di comportamento aggressivi., l’aver vissuto in ambienti degradati dal punto di vista sociale, condizioni di povertà socio-economica, l’aver subito essi stessi frustrazioni e violenze di vario genere oltre all’abitudine ad assumere droghe o alcol. Cosa accade che tutti questi soggetti sviluppano forme di distorsione cognitive, per cui tendono a giustificare i loro comportamenti e a leggere e a distorcere la realtà a loro favore. E poi Fabio, e qui torniamo sul nostro focus della tematica,tali forme di distorsione della realtà trovano radici proprio nella subcultura maschilista tradizionale, per cui “se una donna dice sempre no, vuol dire invece sì”. Questa distorsione riguarda anche il modo con cui lo stupratore recepisce il mondo femminile in generale: per cui se una donna è vestita lasciando parti del corpo più scoperte lo stupratore tende ad interpretare questi segnali come inviti sessuali.
Ho una domanda da farti Antonella, come donna: quanto pesano su una donna questi stereotipi che le vengono dati?
Pesano e pesano tanto perché la donna normalmente è doppiamente vittima, la prima volta come vittima del suo aggressore, la seconda come vittima della società, dei suoi pregiudizi, dei suoi stigmi sociali che la condannano a subire ulteriori umiliazioni, mortificazioni, che si traducono in disagi emotivi psicologici, sociali. Intanto si perpetua quella retrocultura che tende a cercare i motivi dell’aggressione nei comportamenti della donna, per cui spesso il primo pensiero è …ma forse se l’è cercata!!!! Poteva scendere prima, vestirsi in maniera differente, non pronunciare quelle parole, non pubblicare certe immagini, etc Già dal momento in cui deve sporgere denuncia non sempre le sue accuse venne prese subito nella giusta considerazione, la donna percepisce già in questo momento che è esposta al giudizio discriminatorio di chi dovrebbe aiutarla ad intraprendere un’azione di difesa dai suoi aggressori. I processi seguono strade lunghe, fatti di prove, testimonianze, interrogatori che entrano nelle intimità delle vittime e che rischiano poi di diventare processi popolari perché le espongono a giudizi personali fortemente condizionati dagli stereotipi di genere.
Cosa si può fare per cambiare la mentalità di tante persone che negano quasi la possibilità per una donna di vestirsi come le pare senza essere poi etichettata come “facile”?
Io credo che l’educazione in famiglia e la scolarizzazione da questo punto di vista abbiano una grande responsabilità per una corretta formazione della personalità del ragazzo e quindi anche del mondo di imparare a controllare i propri impulsi. Vivere in famiglie deprivate può determinare carenze di socializzazione e distorsioni cognitive che inducono a giustificare o a sentirsi deresponsabilizzati rispetto ai loro comportamenti violenti. Il degrado culturale, l’emarginazione sociale, una situazione familiare conflittuale sono importanti per lo sviluppo emotivo e per il suo livello di socializzazione. Anche l’ambiente in cui si cresce ha la sua rilevanza; un clima violento fa diventare violenti, Tutti gli studi dimostrano che dove c’è ignoranza, povertà ed emarginazione, maggiore è la possibilità che i giovani sviluppino capacità empatiche e che trovano maggiori difficoltà nell’accogliere il punto di vista degli altri.
Un punto sul quale bisognerebbe far leva a partire dalla scuola è l’educazione alle emozioni, insegnare a prendere coscienza delle proprie emozioni a gestirle per migliorare la relazione con se stessi e con gli altri imparando anche a riconoscere le emozioni altrui per migliorare la comunicazione e per essere competenti anche dal punto di vista sociale. Non dimentichiamo che l’analfabetismo emotivo induce a crescere nell’isolamento emotivo che alimenta la frustrazione e che è alla base delle cause di aggressività. Anche l’humus culturale di un certo tipo andrebbe corretto, sfatare i falsi miti come quello che dice che bisogna avere tante donne. L’educazione dovrebbe quindi essere lo strumento per intervenire multidimensionalmente per aggredire, correggere, modificare ed influenzare un amo ventaglio di aree problematiche che vanno dall’eccitamento sessuale deviante, dalle distorsioni cognitive ai modi di pensare misogini e maschilisti, alla scarsa capacità di controllare gli impulsi alle ridotte capacità sociali ed empatiche la bassa autostima o scarse competenze emotive soprattutto di autoconsapevolezze e autoregolazione.
È urgente, credo, educare l’umanità a far crescere le nuove generazioni alle pari opportunità, all’eguaglianza, educarli al rispetto di tutti gli esseri umani: femmina non dovrà più essere un termine dispregiativo!