Intervista al Prof. Dario Spagnuolo, Dirigente Scolastico
Dalla sua posizione “sul campo” di Dirigente Scolastico come vede la condizione degli studenti in questo tempo post-pandemia?
La pandemia ha avuto un impatto devastante su tanti bambini e adolescenti. Dal punto di vista degli apprendimenti, le cose sono peggiorate. La scuola italiana, infatti, si basa sulla pedagogia delle “scuole attive” di Dewey, riprendendo anche le indicazioni di Maria Montessori e di Jean Piaget. Vale a dire che si impara con l’esperienza, utilizzando tutti e 5 i sensi e partecipando. L’esempio più facile è quando si parla di natura e di piante. Il bambino per capire e interiorizzare il significato di dolce, profumato, colorato, liscio deve avere la possibilità di toccare, annusare, osservare e assaggiare una mela.Questo però vale anche con la matematica, ad esempio per associare numero e quantità.
Con la didattica a distanza gli oggetti sono divenuti bidimensionali e l’unico senso per esplorare la realtà è stata la vista, accompagnata come sempre dall’ascolto della lezione. Inoltre, l’interazione in classe migliora molto l’apprendimento. Persino nella didattica trasmissiva, il fatto che esistano bambini che semplicemente ripetono a modo loro quanto hanno capito facilita e arricchisce l’apprendimento.
Con la pandemia, invece, da un lato le paure degli adulti si sono trasferite ai bambini. Così assistiamo a scuola ad un numero crescente di bambini che hanno crisi di panico o che dopo un paio di ore di lezione dicono che si sentono male e vogliono tornare a casa. C’è poi chi non riesce più ad uscire di casa. La pandemia, insomma, ha esasperato le dinamiche di una società che era già molto individualista, solitaria e narcisista.
Purtroppo, durante la pandemia si era anche detto che bisognava puntare sulla scuola, ma in realtà gli investimenti del PNRR sono per acquistare qualche bene strumentale, mentre la legge di bilancio ha tagliato pesantemente i fondi per l’istruzione e renderà molto più difficile una serena frequenza scolastica a causa dei dimensionamenti che diminuiranno il personale e i plessi scolastici.
A partire dal tema dell’emergenza educativa si parla molto del disagio che vivono le nuove generazioni. Ci vuol dire qualcosa in merito?
Papa Francesco ha più volte citato un proverbio africano che dice “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”. L’emergenza educativa mi sembra che provenga dal fatto che il villaggio non c’è più. Ognuno dice quello che vuole. I genitori sono contro la scuola, i politici anche o comunque inseguono l’elettorato per cui cambiano idea e progetto ogni settimana (si pensi alla vicenda dei voti), il mondo imprenditoriale non vuole l’educazione ma semplicemente che si facciano dei lavoratori. E’ evidente che se questo è l’approccio i bambini e gli adolescenti non trovano spazio. Interessa l’elettore o il lavoratore. Il bambino è un fastidio e, infatti, siamo in piena decrescita demografica: la popolazione diminuisce perché i bambini sono visti come un investimento. Si dice: “Non faccio figli perché non me lo posso permettere”. Come se i figli fossero un bene di lusso: uno smartphone, un rolex … Ecco perché c’è sempre più violenza nei confronti di bambini e adolescenti. Importano solo come consumatori e anche poco,perchè sono pochi. Chi ha dei figli guarda a loro come ad un investimento. Che ritorno portano in termini di immagine? E se questo ritorno non c’è perché il figlio è problematico oppure se costa troppo rispetto ai benefici che se ne traggono, allora i figli sono abbandonati. Questo spiega perché in tanti siano in strada senza nessuno.
C’è poi la questione della violenza giovanile che spesso i giovani copiano dal mondo adulto. Il mondo degli adulti, con il consumismo, è divenuto opportunista. Non ci sono idee o ideali: solo il profitto. Per questo ci si preoccupa delle baby gang, però si promuovono leggi per consentire anche ai minorenni di imbracciare un fucile e andare a caccia. C’è un’accettazione diffusa della violenza che esercita un fascino perverso sui più giovani. Infine, credo che ci sia una vera e propria ribellione nei confronti del mondo adulto che ha abbandonato i giovani, li vede solo come un problema. Questo genera tanta rabbia perché non si può vivere bene senza che qualcuno ti ami.
Insomma, credo che il problema dell’emergenza educativa sia quello di una generazione rifiutata.
Il mondo degli adulti sempre più frammentato peraltro non naviga in acque tranquille……
Dal punto di vista di un educatore, quale mi ritengo, il mondo degli adulti è molto più infantile di quello di bambini e adolescenti. Soprattutto è un mondo narcisista, fatto da persone che si guardano continuamente allo specchio e sono continuamente in cerca di approvazione. Si rifiuta qualunque forma di responsabilità, ma senza responsabilità cosa significa essere “adulti”. Oggi nessuno si fa carico di un discorso educativo comune. Ognuno invece gioca le sue carte come un bambino dispettoso potrebbe fare con il Monopoli, cercando di fare fuori l’avversario. Solo che è “tutti contro tutti” e questo ha finito con lo sdoganare la guerra.
Il problema è anche di tipo culturale. Etichettando come radical chic la cultura, ce ne siamo liberati. La cultura è stata sostituita dalle opinioni estemporanee che si trovano sui social: qualche migliaio di “like” decide della fortuna o del fallimento di una persona. Ma è un sistema sciocco, che genera anche grande incertezza. Ci sono tantissime sfide: quella demografica, quella ambientale e poi le crisi politiche. Senza un autentico dibattito, fatto di pensiero lungo, di ragionamento, di confronto democratico, non si va lontano. L’autonomia differenziata, ad esempio, è espressione di questo narcisismo sempre misto a paura. In un mondo globale, con sfide e pericoli immensi, invece di unirsi per fronteggiarli si pensa a come dividersi dagli altri, a come elevare muri, senza vedere che questo modo di agire rende sempre più deboli.
Anche la scuola paga un prezzo molto alto per questo, perché la scuola è stata immaginata come il posto dove i più giovani avrebbero imparato a vivere insieme praticando la democrazia. Oggi confronto, dialogo e democrazia non sono più di moda e sono visti come un ostacolo al successo personale. Ma il successo personale è sempre effimero. Diviene invece eterno quando è il successo di una vita spesa per altri.
Un conoscitore del mondo dei giovani come Roberto Vecchioni ha detto recentemente:”Sono stufo di sentir dire che i giovani sono addormentati e che non contano niente. I giovani italiani sono meravigliosi. Bisogna contare sui ragazzi”. Cosa ne pensa?
Penso che Vecchioni sia veramente un docente. Tutti sappiamo che è professore in un liceo. Chi vive nelle scuole ha il grande privilegio di vedere che la vita non finisce, che c’è un domani nei giovani che verranno. Che quei ragazzi non sono un peso, ma la nostra riserva di futuro e di speranza. Ho avuto la fortuna di insegnare per tanti anni nelle scuole superiori e poi di diventare dirigente scolastico in una scuola del I° ciclo, con alunni dai 3 ai 13 anni. Vederli crescere, dare loro fiducia, guardare come sono pieni di idee, di inventiva, di risorse è bellissimo. Chi sta loro accanto ha sempre da imparare. Bisogna contare sui ragazzi, ma per farlo bisogna innanzitutto ascoltare cosa hanno da dire.
Ho avuto la fortuna di ricevere tante mail e messaggi di alunni che non vedo da tempo. Uno di questi mi ha scritto “Ricordi quando dormivo in classe. Tu però mi tenevi sveglio e ho deciso anche io di donare la mia vita ai ragazzi. A proposito, quello che dormiva in classe si sta laureando”.
Un’altra mi ha scritto dicendomi:“Con mio marito abbiamo pensato di andare in Polonia e così abbiamo anche visto Auschwitz. Grazie per avermene parlato. E’ un posto che tutti dovrebbero visitare. Forse il mondo diventerebbe migliore.” Ma ho tanti esempi che potrei fare.
E’ vero anche che nelle scuole incontri la sofferenza di tanti bambini e adolescenti. Contrariamente al racconto delle famiglie italiane felici e unite, la verità è che la società è molto divisa. In tantissime famiglie i genitori si sono divisi ancora giovani e i figli finiscono quasi sempre stritolati nei conflitti tra padri e madri. Questo provoca dolore e disagio e anche rassegnazione sul futuro già da piccoli.
Quali potrebbero essere secondo lei alcune direttrici di cambiamento nel rapporto tra unasocietà che sempre più invecchia e implode e il variegato mondo dei giovani?
Siamo in una fase in cui è in atto un mutamento antropologico preoccupante. Un neuropsichiatra, Luigi Zoja, ha scritto un libro dal titolo significativo: La morte del prossimo. La società attuale vive nel presente e ha interrotto le relazioni anche con il “prossimo temporale” cioè con le generazioni che vengono prima e dopo quella che attualmente detiene il potere (i cosiddetti boomer). Gli anziani sono allontanati e rinchiusi negli istituti perché improduttivi, i giovani sono guardati con sospetto perché destinati a ereditare il comando. Questo rivela che c’è una grande avarizia nei confronti dei più giovani, come dimostrano anche tutte le politiche di investimento pubbliche che non tengono assolutamente conto dei giovani, ma solo dei loro presunti bisogni. Così con il PNRR sono stati acquistati migliaia di tablet e device, ma i giovani preferirebbero essere ascoltati e avere spazi dedicati a loro.
Credo che sarebbe bene intraprendere dei cambiamenti. Il primo da compiere è nel linguaggio. I cinquantenni e i sessantenni non sono “giovani” o “ancora giovani”, sono adulti e anziani. I giovani non sono bamboccioni o nullafacenti o baby gang. Sono giovani. Poi bisogna dare spazio alle nuove generazioni in ogni campo: nello sport, in politica, sul lavoro. Occorre fiducia. Un cambiamento importante sarebbe da fare con i cosiddetti immigrati di seconda generazione che in Italia stentano a essere riconosciuti come italiani. Nell’Europa dei popoli è un atteggiamento stupido e provinciale ed anche estremamente violento perchè nega l’identità di tanti ragazzi. Se sei nato in Italia, parli italiano, hai studiato nelle scuole italiane e ti senti italiano perché devi vederti negata la cittadinanza? Dove altro potresti andare?
Sarebbe bene anche intraprendere delle politiche per i giovani. Innanzitutto si dovrebbe investire sulle scuole pubbliche, garantendo a tutti luoghi dove fare sport, spazi mensa, luoghi dove studiare e giocare.
Infine credo che servirebbe anche una forma di “continenza verbale”. Si parla tanto, troppo, ad una generazione che è abituata a messaggi molto diretti e che, in questo modo, ha imparato a dialogare e argomentare. Noi adulti, invece, siamo abituati a pontificare, a parlare tanto quasi sempre per narcisismo.
Umberto Galimberti ha scritto “Al nichilismo passivo della rassegnazione non sono pochi i giovani che sostituiscono il nichilismo attivo di chi, prendendo le mosse proprio da quel desolante scenario, e non da consolanti speranze o inutili attese, inventa il proprio futuro”. Che ne pensa?
Penso che il nichilismo dei giovani sia un problema e che sia la risposta ad un mondo vuoto. Pieno di oggetti e cose da consumare, ma di fatto svuotato di un orizzonte di senso. Trascorro molto tempo a parlare con i più giovani e mi colpisce molto come stiano ad ascoltare con grande attenzione e pongano domande molto pertinenti. L’unico modo per sconfiggere il nichilismo, quello passivo di chi si arrende o si adegua ad una vita vuota o quello attivo di chi, consapevolmente, sceglie la strada della reazione anche violenta, è quello di creare un vero spazio di dialogo e, innanzitutto, di ascoltare. I giovani hanno molto da dire ma il loro linguaggio è diverso da quello del mondo adulto. Per questo ci vogliono capacità di ascolto, pazienza, capacità di analisi e anche di traduzione. Voglio dire che forse un compito dell’informazione sarebbe spiegare cosa autenticamente desiderano teenager e ventenni.