di Giuliana Gugliotti e Manlio Converti
Femminicidio. Una parola che ultimamente è entrata a far parte del gergo comune. Se ne sente parlare troppo spesso, si ascolta e si legge ovunque. Alla radio, alla tv, sui quotidiani, sui giornali.
Una parola stridente, fastidiosa, ansiogena, che somiglia e ne ricorda un’altra, “omicidio”, da cui etimologicamente discende, e alla quale tuttavia aggiunge una connotazione specifica, più cruenta, quella dell’atto commesso contro una categoria specifica che diventa simbolico di un malessere, di un problema che ormai ha assunto una portata sociale.
Dopo il rinvio della discussione sulla legge sul femminicidio al prossimo 2 ottobre, anche le professioni sanitarie iniziano ad interessarsi al problema. Questa mattina al Maschio Angioino il convegno “La violenza nella coppia e in famiglia: quali interventi, quale prevenzione” organizzato dall’ente Sumai Assoprof, per discutere la problematica insieme ai professionisti del settore: psichiatri, psicologi, psicoterapeuti.
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Da gennaio 2013 ad oggi sono 81 i femminicidi commessi in Italia. 81 donne hanno perso la vita, uccise nella maggior parte dei casi dal marito, dal fidanzato, dall’amante. Da una persona a cui erano vicine, fisicamente ed emotivamente, e da cui probabilmente avevano già subito violenza.
Purtroppo le statistiche in merito sono carenti. “Gli ultimi dati dell’Istat risalgono al 2006” afferma Filippo Cantone, coordinatore nazionale Sumai psicologi. “Dobbiamo all’Eures, in collaborazione con l’Ansa, statistiche più recenti sul fenomeno del femminicidio. Il dato inquietante” sottolinea il dottor Cantone “è che il 40% delle donne uccise aveva già denunciato di essere stata vittima di violenza, ma le istituzioni non sono riuscite a tutelarla“.
Questo perché la rete di sostegno anti-violenza offerta alle donne in Italia è tutt’altro che capillare. “Non esistono degli enti che si occupino di questo tema specifico” spiega Cantone. Una soluzione parziale potrebbe essere quella di “potenziare gli sportelli di ascolto interni alle Asl“, ma la verità è che la violenza sulle donne rimane, in buona parte, un fenomeno sotterraneo.
Perché nella maggioranza dei casi le donne hanno paura a denunciare. La condizione di subordinazione psicologica, oltre che fisica, in cui si trova una donna vittima di violenza nei confronti del suo carnefice, è spesso tanto potente da impedirle qualunque forma di ribellione. Anche la denuncia diventa così un’opportunità mai presa realmente in considerazione, uno sforzo troppo grande, un gesto estremo, che fa paura, di cui ci si potrebbe pentire in futuro, qualora si venisse scoperte. “Soltanto il 6% delle donne denuncia la violenza” conferma Cantone.
Ma anche per quelle (poche) donne che trovano il coraggio di raccontare gli abusi, l’assistenza andrebbe ripensata. Innanzitutto sradicando l’infamante pregiudizio del “te la sei cercata”.
“Purtroppo è abitudine diffusa in Italia per gli psicologi e gli psicoterapeuti cercare la causa della violenza all’interno della psicologia della vittima” spiega Barbara Colurcio, psichiatra dell’Asl Na1. “Bisognerebbe invece demolire il paradigma culturale della responsabilità della vittima nelle situazioni di violenza, un atteggiamento che non aiuta il processo terapeutico, ma anzi contribuisce alla distruzione morale della vittima stessa“.
Un segnale dovrebbe arrivare anche dalla società allargata. Per fermare l’escalation di violenza contro le donne bisogna fare innanzitutto prevenzione. Una prevenzione che parta dai valori, dall’educazione, dall’immaginario collettivo. E’ in questa sede che la figura della donna deve essere riabilitata. Che serva o meno in tavola, l’importante è riuscire a vedere nella donna non più una “costola” di Adamo, ma un soggetto di pari considerazione, pari merito, pari dignità.
30 settembre 2013