Reduce della lettura dell’articolo di Ilaria Puglia su Parallelo 41 mi accingo a depositare su carta alcune riflessioni più o meno estemporanee. Il pezzo, intitolato “Perché De Magistris è più provinciale della sua Provincia” (senza ombra di dubbio un ottimo lavoro), prende a pretesto l’ultimo posto guadagnato da Napoli nella classifica de “Il Sole 24 Ore” sulla vivibilità delle città italiane per mettere in piedi una sillogistica, impeccabile e poco celata invettiva nei confronti del sindaco di Napoli.
Il malaccorto Giggino si sarebbe infatti reso colpevole di un clamoroso errore: distinguere la città dalla sua Provincia asserendo che, se Napoli è ultima nella classifica della vivibilità, la colpa è della situazione disperata in cui versano i comuni in provincia di Napoli. Distinzione, che secondo la signora Puglia, rivela un provincialismo “più provinciale della provincia stessa”.
Senza voler scendere nel merito dell’intento discriminante che si cela dietro queste parole (perché non è vero che gli abitanti della provincia sono tutti provinciali. Il provincialismo è un modo di guardare alla realtà, mica si ha per diritto di nascita o dipende dalla collocazione geografica della propria abitazione), l’accusa che sostanzialmente viene mossa a Luigi De Magistris è quella di considerare la provincia di Napoli come una parte integrante della città solo quando serve, e di buttarla invece nel cesso tirando senza remore lo sciacquone quando, insieme alla provincia, è la città a essere trascinata nel baratro degli scoop giornalistici sull’inquinamento, sulla malagestione pubblica, sulla invivibilità e così via.
Insomma, questa provincia fa parte o non fa parte di Napoli?, si chiede Ilaria Puglia. E soprattutto da che punto di vista bisogna guardare alla separazione/integrazione? Bisogna fare un po’ di chiarezza. Da un punto di vista storico, sociale e culturale, credo si possa affermare senza paura di essere smentiti che la provincia di una città fa parte di diritto della città stessa: i giuglianesi, i melitesi e gli afragolesi si sentono napoletani, e non a torto, perché il background culturale e sociale è lo stesso, cosa che accade qui come in ogni altra provincia metropolitana del mondo (soprattutto se si considera che le provincie nella maggior pate dei casi sorgono, come agglomerati urbani, per rispondere alle esigenze di espansione delle grandi città).
Da un punto di vista amministrativo invece bisogna distinguerle: esistono delle regole, delle leggi, una burocrazia in base alle quali appare chiaro e scontato che chi amministra la città non amministra anche la sua provincia. C’era una volta un ente autonomo adibito allo scopo, chissà che fine farà.
Come si può pretendere quindi dal sindaco di una città che si occupi dell’intera area riguardante la provincia? Che colpa ha Giggino se per anni criminali hanno sversato rifiuti tossici in tutto l’agro campano? Che potere ha lui di intervenire? Ve lo dico io, nessuno.
Tutto quello che il sindaco di Napoli può fare è partecipare (come libero cittadino, e senza gonfalone), a una mobilitazione dal basso che, se a qualcuno fosse sfuggito, sta passando alla storia non soltanto della Campania, ma dell’Italia intera, come il più vergognoso genocidio dei tempi moderni. La solidarietà di un rappresentante pubblico mi sembra quantomeno doverosa, soprattutto in virtù di quella vicinanza emotiva, culturale e spirituale che allo stesso modo fa dire con orgoglio a Lugi De Magistris, come a noi tutti, che la mozzarella di bufala, Capri e Sorrento (e perché no, anche Ischia, Amalfi e Procida), sono eccellenze e bellezze “napoletane” – anche se sarebbe più giusto dire campane.
Questo è un conto. Un conto è pretendere dall’amministrazione comunale (cito) “uno spunto progettuale per estendere la bellezza di Napoli alla provincia immediatamente adiacente”. Ma di cosa parliamo? Il comune di Napoli che si occupa di un progetto per il rilancio della Provincia? E i comuni di Acerra, Casalnuovo, Marano e compagnia che ci stanno a fare? E la Regione? Non si sa. In ogni caso, chiedere un impegno del genere al comune di Napoli (con tutti i problemi che Napoli, con le sue altrettanto dimenticate periferie, come dice bene la Puglia, ha già) sarebbe folle da tutti i punti di vista, burocratico in primis.
Folle invece non mi sembra il voler ricordare a chi legge il titolone cubitale dell’Espresso “Bevi Napoli e poi muori” che le analisi dell’acqua di cui si parla nell’inchiesta (peraltro smentite dagli Usa) fanno riferimento ai comuni della provincia, e non alla città di Napoli, che essendo sotto un’altra giurisdizione hanno – come è giusto – altre amministrazioni, un altro acquedotto, altre fonti di approvvigionamento dell’acqua, e che quindi non è l’acqua di Napoli (come scrive l’Espresso) che devi “bere per morire”. Così come folle non è ricordare a chi legge la classifica de Il Sole 24 Ore che i risultati emersi si basano su statistiche condotte tenendo conto anche delle provincie, perché in fondo a Napoli città (comprese le periferie, sì, da Scampia a Bagnoli) non si vive poi così male, o almeno non più male di quanto si viva, per esempio, nella Roma Capitale e nella sua immensa periferia, da Tor Pignattara all’Infernetto, che, diciamocelo (parlo per esperienza personale), è messa altrettanto malaccio.
Ma quello che più mi ha colpito nell’articolo della signora Puglia è la rabbia, l’amarezza e il rancore buttato in faccia a una città che, a suo dire (e purtroppo a dire di molti) è diventata impossibile da vivere, anche per chi non chiede altro che un po’ di serenità e una vita “normale”.
“Perché con le chiese meravigliose (tra l’altro spesso chiuse al pubblico) non ci vado a lavorare, perché la vista del Vesuvio da lontano non mi fa stare meglio se la mia vita ogni giorno è quanto di più simile a una battaglia esista, perché il mare più splendente e il cielo più azzurro che c’è non ti fa tornare più felice la sera a casa, dopo aver buttato il sangue per fare piccole cose che hai tutto il diritto di fare, rispettando ogni giorno ogni tuo dovere”.
Tutto vero, per carità. Però ecco, io questo pessimismo atavico, che alcuni chiameranno realismo, questo voler a tutti costi trovare un colpevole, un capro espiatorio, o un motivo per cui lamentarsi, proprio non lo condivido.
Io vivo a Napoli da una vita, e la mia vita è una battaglia quotidiana, ma non contro la città. È una battaglia quotidiana contro uno status quo (mondiale, passatemi il qualunquismo) che è disumano, discriminante, assassino. Un sistema che, per fare degli esempi concreti e vicini a tutti noi, fa morire di freddo un senzatetto, lascia per terra un uomo svenuto senza soccorrerlo perché se non arriva l’ambulanza non si può intervenire (è successo ieri a piazza Trieste e Trento), lascia (e fa in modo) che una banda di ragazzini picchi a sangue una ragazza in pieno centro città restando a guardare. Succede a Napoli, come (e in proporzione molto di più) nel resto del mondo.
E a me, in questo marasma infernale, di fronte all’amara constatazione di ciò che siamo diventati, entrare in una chiesa come quella di Monteoliveto che magari, dopo tanti anni di chiusura, ha riaperto i battenti per regalare ancora una volta al pubblico la spettacolare vista degli affreschi del Vasari o di un notevole complesso scultoreo in terracotta, come lo è “Il compianto” del Mazzoni, oppure vedere il Vesuvio innevato e avvolto dalla nebbia in un grigio sabato mattina in cui mi tocca lavorare, o guardare alle onde che si infrangono schiumando sulla scogliera di un lungomare (finalmente) liberato, contro un cielo azzurro dopo giorni di pioggia, ecco, a me tutto questo mi fa sentire più felice. Magari non mi renderà più ricca, ma più felice sì.
Così come mi rende felice il mio lavoro, girare per le strade, parlare con la gente, scovare storie che valgono la pena di essere raccontate, ascoltare e divulgare il parere degli altri anche quando non lo condivido. Pur sapendo che molto probabilmente da giornalista non sarò mai ricca. Ma almeno sarò felice.
Insomma. Io questa tendenza a raccontare le cose soltanto quando vanno male e perché vanno male, nel tentativo di giustificare il proprio pessimismo, davvero non la capisco. Le cose vanno male ovunque, diciamocelo in faccia. E la colpa è proprio nostra, di cittadini, di persone, di esseri umani. Allora, tutto quello che possiamo fare, lungi dal rassegnarci a subire passivamente gli eventi, è lottare quotidianamente, sì, ma per migliorare lo stato di cose. A cominciare dal piccolo microcosmo in cui ognuno di noi vive. Allora, la classifica de Il Sole 24 Ore diventerebbe un buon pretesto non per puntare il dito contro la Provincia, o l’amministrazione, o gli illustri sconosciuti che hanno stilato la classifica stessa, ma per rimboccarsi le maniche e cominciare a guardarsi intorno per vedere cosa si può fare per rendere Napoli (e la sua periferia, e la sua Provincia) più vivibile, senza fare inutili allarmismi, gridare allo scandalo o polemizzare continuamente (perché, si sa, alla gente piace di più leggere che le cose vanno male).
Ecco. Questa è la cosa che più non sopporto di Napoli: la tendenza ancestrale dei suoi figli a lamentarsi di continuo e di tutto, e a piangersi addosso perché non si riesce a ottenere quello che si vuole, che guarda caso è sempre un passo più avanti rispetto a quello che si ha già. Una caratteristica, questa sì, che accomuna proprio tutti i napoletani. Che siano della città o della Provincia.