Mia figlia oggi ha 17 anni, tra un anno di questi tempi dovrà pensare all’università. A dir il vero lei sa già cosa vorrebbe studiare. Lei vorrebbe diventare una veterinaria. Ha sempre pensato di farlo, fin da quando aveva 7 anni. Curava e si prendeva cura di passerotti, tortore, rospi, rane, lucertole e di tutti gli animali che incontrava, spesso anche con ottimi risultati. La definirei una passione innata. Però come tutti i suoi coetanei oggi, non sa se potrà studiare per diventare quello che vorrebbe riuscire ad essere. Perché alla facoltà di Veterinaria di Napoli ”entrano” solo 58 studenti all’anno su una richiesta di più 800, mediamente.
Infatti in Italia esistono i ”famigerati test d’ingresso”, che sono le vere forche caudine (che da quest’anno si svolgeranno ad anno scolastico in corso, ad Aprile) per tutti i ragazzi che devono, dopo i licei, intraprendere la loro strada verso il futuro. E mi dispiace osservare che il dibattito intorno all’accesso all’università, questione cruciale per qualsiasi Paese, si riduca a una discussione che dura sì e no una settimana in estate e che troppo spesso è incentrata solo e soltanto sulle domande del test della facoltà di Medicina. La verità è che il numero chiuso sta progressivamente diventando uno strumento universale di sbarramento all’università. Oggi il 57,3% dei corsi di laurea attivati in Italia prevedono una selezione all’accesso, praticamente più della metà. Al di là delle facoltà che sono regolate da un sistema di selezione nazionale (L. 264/99) i singoli atenei possono decidere se attuare o meno dei sistemi di selezione.
È ovviamente, complice:
1) il durissimo taglio dei fondi pubblici attuato dalla famigerata ”Riforma Gelmini” (peggio di una pestilenza per l’istruzione di questo paese)
2) il blocco del turn-over e quindi l’impossibilità di assumere nuovi docenti
3) la carenza storica di spazi e infrastrutture
4) il famigerato decreto AVA
5) l’imposizione di ristrettissimi requisiti per l’attivazione dei corsi di studio, il numero chiuso è diventato lo strumento principe con cui far fronte ai problemi economici dell’università pubblica, nell’attesa che qualcosa possa mutare nell’atteggiamento verso l’istruzione da parte della politica nazionale.Ad oggi siamo ultimi in Europa con l’investimento solo dell’1,2 % del nostro pil, dietro anche alla povera Grecia ( in cultura spendono tutti più di noi dalla Germania – 1,8% del Pil – alla Francia – 2,5% – fino al Regno Unito al 2,1%.)
Paradossale che in un momento come questo, in cui la ricerca e lo sviluppo sono le uniche armi per combattere la crisi mondiale di occupazione, in cui il valore della qualità individuale e dell’istruzione saranno le vere armi globali con cui i nostri giovani si dovranno confrontare con i loro coetanei dei paesi emergenti, nel mercato del lavoro globale, noi, ovviamente, riduciamo l’offerta universitaria. Mentre la cosa di cui il nostro Paese avrebbe bisogno in questo momento sarebbe l’esatto contrario.
Cioè l’abolizione totale di ogni barriera all’accesso universitario e un grosso piano di investimenti pubblici per gli atenei (in linea con quelli abituali di altri stati europei), in maniera tale da garantirne la sostenibilità e la capacità di accogliere e fornire istruzione di qualità a tutti coloro che lo desiderano. Il tutto andrebbe supportato da un nuovo sistema di borse di studio e servizi in grado di tutelare il diritto di proseguire gli studi oltre il diploma a prescindere dalle proprie condizioni di reddito.
Appunto, il contrario di quanto avviene.
Di solito la banalità più grande che viene detta dai ”sostenitori” dei test universitari è che il ”merito e la preparazione” sono la base di partenza per un iscrizione universitaria. Ovviamente niente di più falso: la formazione universitaria rientra a pieno titolo fra i diritti fondamentali di ogni cittadino, garantito fra l’altro dalla nostra Costituzione. I diritti, per loro natura, non sono un premio che ognuno deve provare ad ottenere, ma una garanzia che ogni società dovrebbe premurarsi di tutelare. Selezionare, in base a una presunta idea di “merito”, chi può godere di un diritto e chi no, è una prepotenza di cui ci si è arrogati in maniera totalmente illegittima. E, ripeto, anticostituzionale.
E fossero almeno questi test uno strumento imparziale, che almeno permettessero a chi studia di superarli senza problemi. Invece sono esattamente il contrario: infatti mi chiedo come è stato possibile pensare che qualche decina di domande e due ore di tempo siano lo strumento per stabilire chi è in grado di studiare una disciplina e chi no? Questi test, per come sono strutturati, tra l’altro premiano un tipo di preparazione, nozionistica e meccanica, che è davvero lontana dal metodo e dai contenuti con cui si viene formati all’interno delle nostre scuole.
Quello che invece i test hanno sicuramente prodotto è un nuovo”mercato” la cui spesa cade sulle spalle delle (solite) famiglie: quello delle aziende/istituti privati che preparano i futuri universitari in vista del test, insegnando più che materie, ragionamenti e connessioni, trucchi e metodi per poter rispondere velocemente a una tipologia pre-impostata di quesiti. I costi di questi corsi sono altissimi e accessibili solo a coloro che hanno la possibilità di investire economicamente nella preparazione ai test d’accesso, alla faccia di qualsiasi discorso sull’equità e sulla mobilità sociale. Pensate che oggi il numero dei laureati che provengono da famiglie in cui almeno uno dei due genitori è laureato è 7 volte superiore di quello di chi viene da una famiglia a basso livello d’istruzione. Fantastico no?
Questo modo di costruire la società che verrà è indegno oltre che dannoso. Stiamo rubando, come generazione, la merce più preziosa che mai nessuna società dovrebbe sottrarre ai suoi discendenti: il diritto allo studio. Quindi siamo ladri di futuro. Forse è il caso di prenderne coscienza?