“Una lampa”, in scena al Lanificio 25 l’invettiva di Roberto Azzurro contro Napoli e i napoletani (VIDEO)

Cattiva, irriverente, sarcastica e cinica. L'invettiva di un napoletano contro i napoletani

0
1096

Durante il corso dell’evoluzione dell’essere umano per il raggiungimento della posizione eretta, l’uomo napoletano, alzando un poco la testa per guardare verso l’orizzonte, si trovò dinanzi lo sconfinato e mozzafiato scenario del golfo di Napoli, che, statisticamente, è il terzo golfo più bello al mondo – gli altri due sono in Brasile. Così, folgorato da quella visione, rimase piegato, come dire, a novanta gradi, in una postura premonitoria delle future sorti e vicissitudini dell’intero popolo napoletano.


Roberto Azzurro la racconta così, l’evoluzione dell’uomo napoletano. Un essere grezzo, grasso, autoreferenziale e completamente “napolicentrico”, incapace di elevarsi ai gradi più alti della scala evolutiva. Come si permette?, direte voi. Già. Si permette innanzitutto perché anche lui è napoletano, “e quindi su Napoli e sui napoletani posso dire quello che voglio”, e in secondo luogo perché la sua non è la solita celebrazione della città unanimemente considerata dai suoi abitanti “la più bella del mondo”, ma un’invettiva. Contro Napoli, e contro quella razza barbara che la infesta: i napoletani. Un’invettiva scaturita dalla rabbia, dalla difficoltà talvolta insormontabile di vivere in una città che, per definizione, è “unica al mondo”, e covata dentro tanti anni prima di essere riversata su carta – quasi come uno sfogo, un liberatorio flusso di coscienza – e infine trasposta, come spiega l’attore, “nella dimensione che mi è più congeniale: la scena teatrale”.

Nasce così “Una Lampa“, cattiva, irriverente, sarcastica e cinica invettiva – non c’è altro modo per definirla – che Roberto Azzurro dedica alla città e ai suoi abitanti, se stesso compreso, andata in scena per la prima volta a Napoli sabato 25 gennaio al Lanificio 25. Un vero e proprio tradimento perpetrato ai danni della città che gli ha dato i natali, e che tuttavia proprio per questo svela l’amore che l’attore nutre per la città in cui, tra mille difficoltà e amarezze, continua tuttora a vivere.

Perché “dove c’è un tradimento si presuppone anche l’amore”, spiega Azzurro, ed è questo amore ambivalente, sofferto, a tratti rifiutato, che viene messo sulla scena attraverso le crude parole di denuncia di tutti i mali di una città troppo stratificata per cambiare, troppo incentrata su se stessa per accorgersi dei molteplici tumori che la infestano, troppo impegnata a morire e risorgere giorno dopo giorno, lasciandosi dietro solo una pallida memoria, senza saper fare altro che vivere qui e ora, nella fugacità assoluta del momento presente.

La città che emerge dall’affresco di Azzurro è una Napoli capace di sconfiggere la morte proprio perché non attaccata alla vita, una città permeabile alle influenze che tutto e niente conserva, priva di prospettive per il futuro e proprio per questo libera da ogni paura. Perché a Napoli, “l’ordinario diventa straordinario, e lo straordinario diventa ordinario“. La città appare così imprigionata in un movimento oscillante, circolare, ruotante attorno al perno della napoletanità, una “mesca francesca” di luoghi comuni, veraci parossismi, quotidiane (in)civiltà. “Per Napoli ci vorrebbero delle leggi a se stante, modellate e calzate sulle caratteristiche dei napoletani. Napoli dovrebbe essere una città-stato, come Singapore”. O come una polis greca, autogestita e autonoma, che non ha bisogno di sentirsi parte di niente e di nessuno Stato più ampio, perché la sua essenza, quella “napoletanità” odiata e amata che è mescolanza di tradizioni, umori, usi e costumi acquisiti in secoli di storia, basta (e avanza) a se stessa.

Nessuna resurrezione è possibile. “Napoli non cambierà mai, prendere o lasciare”. L’unica, paradossale speranza di purificazione risiede nel potere incenerente del fuoco: quello più comunemente temuto del Vesuvio, ma anche la fiammella scaturita dall’attrito dei freni di una volante della Polizia in ronda nel quartiere di Scampia. Da lì, da quel quartiere troppe volte simbolo del degrado dell’intera città, si diramerebbe, nella visione catastrofica di Azzurro, un incendio indomabile, definitivo, “una lampa“, che arderebbe la gialla roccia tufacea generando una colonna di fumo che sarebbe visibile fino in Asia, e specchiandosi nella notte di un mare troppo calmo per arrivare con le sue onde a spegnere le fiamme. Una visione apocalittica, quella di Azzurro, in cui nessuna salvezza è possibile. Solo, ad echeggiare nella notte, rimarrebbe il grido di una “vrenzola” dei Quartieri Spagnoli: “Gente, se sta appiccianno Napule!”. E poi, soltanto la pace di un silenzio tanto agognato e, nel caos partenopeo, impensabile.