L’isola di Megaride tra storia e leggenda

L'isola di Megaride è uno dei luoghi più sacri della città di Napoli. Il suo mito si perde tra storia e leggenda, dalla civiltà cumana ai giorni nostri.

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Megaride

Tra i miti più antichi legati alla città di Napoli e che nell’insieme intrecciano le origini storiche e sacre del suo popolo, ricordiamo quello dell’isolotto Megaride. Questo è l’isola minore del Golfo di Napoli, in origine separata dalla terraferma da un breve braccio di mare, ma oggi tutt’uno con il continente grazie a una serie di riempimenti in mare.

Megaride secondo le fonti storiche e letterarie

Come varie fonti di epoca greca ci dicono, Megaride è uno dei luoghi di culto più sacri dell’antichità campana, ad esso legato quello della sirena Partenope, figura già nota nella Grecia Orientale prima della fondazione di Neapolis nel VI secolo a. C. e, addirittura, del suo nucleo urbano originario risalente alla dominazione cumana dell’VIII secolo a. C., Partenope. Il corpo della sirena Partenope, morta di dolore a seguito del rifiuto da parte di Ulisse, fu sepolto proprio a Megaride, dove esso arrivò spiaggiandosi dopo un lungo tragitto tra le onde del mare.

Oggi l’isolotto di Megaride è divenuto più che altro un basamento di tufo e piperno, diviso tra ciò che è un borgo di ristoranti e locali notturni e il più antico castello napoletano, il Castel dell’Ovo. Megaride trae origine geologica dal Monte Echia, di cui già era una platamona, una propaggine che legava l’attuale area di piazza Municipio, i quartieri di Chiaia e San Ferdinando, con il mare di Mergellina.

La leggenda napoletana di Megaride secondo Matilde Serao

Come scrive magnificamente dal suo “Leggende napoletaneMatilde Serao, l’isolotto di Megaride è nell’Ottocento il luogo del mare più tempestoso del Chiatamone, le fondamenta tristi ma solide, chiamate anche Megara (grande in greco antico), del Castel dell’Ovo. Agli albori l’isola era ricoperta da una fiorita superficie di aranceti, canneti e bassissimi arbusti tipici della macchia mediterranea. Megaride fu inoltre giaciglio delle Nereidi e delle Driadi, le figure mitologiche delle ninfe marine e vegetali.

A sconvolgere la tranquillità e la sacralità del braccio di terra fu Lucio Licinio Lucullo, un secolo prima della nascita di Cristo, il quale acquistò un fondo agricolo compreso tra Pizzofalcone e Pozzuoli. Lucio Licinio Lucullo fu un forte guerriero dell’età imperiale romana, mecenate e generoso amico dei letterati, primo tra i seguaci dell’epicureismo e amante delle residenze marittime circondate dal mare. Già celebre per le sue ville e palazzi (tra cui ricordiamo la Domus patrizia di Roma, la Villa di Baia, la Dimora di Tuscolo e la Villa di Pompei), Lucullo edificò qui ciò che fino all’epoca tardoromana fu celebre come Castrum Lucullanum, la Villa-fortezza di Megaride.

Essa ospitava una tra le più ricche e selezionate biblioteche private dell’antichità, allevamenti di murene, frutteti di pesco e di ciliegie, queste ultime essenze esotiche provenienti dalla Persia e da Cerasunta, città dell’Anatolia (odierna Turchia), da cui proviene il nome napoletano del frutto: “cerasa”. Lucullo infranse la dimora delle ninfe oceanine e vi disegnò personalmente, anche, i prati, i boschetti di rose e i gradini che dal giardino scendevano al mare.

Scacciati gli dei e la loro corte, Lucullo sistemò le sue bellissime schiave in giardini degni di un imperatore, murene nei vivai delle grotte di coralli e di alghe verdi, i più rari ed esotici volatili nelle uccelliere, i più colti e raffinati musicisti negli archi a tutto sesto. La Villa di Megaride fu nota per le sue feste e baccanali, per le sue magiche luminarie, per i suoi gustosi banchetti, per le sue macchinose scenografie teatrali; ma, ancor di più, lo fu per la bellezza che ospitò, non solo letteraria, ma mondana di Servilia, la sua bellissima moglie, sorella di Catone e tra le più belle donne di romana e latina memoria, che non solo poeti e artisti faceva disperare ma tutti gli ospiti del mecenate, dai garzoni ai nobili romani; e, infine, gli dei.

E Servilia distesa sul lettuccio, vestita di stoffa tessuta d’oro, lasciandosi sventolare dalle schiave fremendo di piacere alla brezza marina, guardando distrattamente la ridda delle danzatrici, mormora fra sé, sono io, sono io la sirena! E l’aria mormora anch’essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti: è lei, è lei la sirena. Servilia quando solleva un cespo di fiori è bella come Flora; Servilia, quando sceglie in un cestello  la pesca matura, è bella quanto Pomona; Servilia quando porta sui capelli la brillante mezzaluna e al fianco la faretra, è bella quanto Diana; quando senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo
dal bagno, tutta stillante profumi, si lascia asciugare dalle schiave e s’avvolge nella tunica bianca, è… – …bella come Venere – sussurra lo schiavo innamorato. – Più bella di Venere – dice, col suo olimpico orgoglio, Servilia. Il che è udito dalle attente ninfe oceanine e Venere sa che Servilia l’ha offesa e Poseidone questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante“, condannando l’isolotto di Megaride all’erosione e alla futura scomparsa.