La Questione meridionale oltre Mattarella e Sales

Oltre le parole di uomini come Mattarella e Sales, la Questione meridionale può essere risolta solo politicamente ristrutturando l'economia.

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Rivolta di Reggio Calabria

Circa due settimane fa Sergio Mattarella, come quasi tutte le personalità della politica nazionale hanno fatto in quasi 70 anni di regime repubblicano, nel suo discorso di insediamento ha verbalmente insistito sull’Unità, sull’inveramento continuo del patto costituzionale, sulla Questione meridionale e il sottosviluppo del Mezzogiorno, come ciò che dovrebbero essere i cardini dell’attuale Agenda di Governo in termini programmatici; eppure, sempre verbalmente, si pone in continuità con la palese distruzione della Costituzione da parte di governi non eletti, con le politiche che del Meridione hanno fatto una irrisolta questione e con l’esercizio retorico di chi alle parole non farà seguire nulla.

La soluzione della Questione meridionale oltre Mattarella e Sales

A queste parole uomini come Isaia Sales, uno tra gli esponenti del fallito rinascimento napoletano e del Meridione di epoca bassoliniana, hanno fatto seguito con testimonianze di riaccesa speranza nei confronti di una Questione meridionale passata di moda e a cui la Tecnocrazia renziana e comunitaria non dimostra alcun interesse. Senza soffermarci troppo sulle ipocrite e contraddittorie parole di Mattarella, proviamo a spiegare su quali condizioni sociali, economiche e politiche esistenti, perdura la Questione meridionale e a spiegare come le proposte di uomini come Mattarella e Isaia Sales (che ad esempio affermano che per ritornare a fare, finalmente, del Meridione una macroregione sviluppata, emancipata e allineata con il Nord, in una nazione integrata, bisogna pensare ad autonomie macroregionali federete e a un Ministero del Mezzogiorno) sono le solite parole di rito e non bastano a unire l’Italia, e in Europa a fare i cittadini europei.

Autonomie macroregionali e un Ministero del Mezzogiorno per integrare l’Italia

Fuorviante è pensare di istituire un Ministero del Mezzogiorno e una politica economica di programma (che unisca l’Italia integrando, sviluppando, allineando il tessuto produttivo meridionale a quello Tosco-Padano) a partire da quegli stessi partiti politici nazionali e su quella classe dirigente meridionale che per mezzo secolo hanno indotto e contribuito al sottosviluppo meridionale.

Il massacro del Sud e l’unità truffaldina

Non si ricorda mai abbastanza come l’unificazione italiana sia stata essenzialmente una conquista regia e una colonizzazione del Mezzogiorno da parte del capitalismo settentrionale. Il saccheggio e il depauperamento del Mezzogiorno, da parte degli eserciti garibaldini e sabaudi, espropriarono il Meridione dei capitali di stato ammassati dalle Due Sicilie in anni di sviluppo agricolo, di industria leggera e di timido inizio di industria pesante. Sulla base di una classe dirigente asservita, sulla base di un capitalismo monopolistico e mercantilistico del Settentrione ai danni del Meridione e sulla distruzione nel Sud di una occupazione stabile e diffusa, i governi nazionali, sia monarchici che repubblicani, hanno storicamente determinato un costante e indotto arretramento di una parte del paese, a tutto vantaggio di un’altra.

Due settimane fa uomini come Isaia Sales, a cavallo del discorso di insediamento del nuovo presidente della Repubblica, hanno parlato di ritornare “seriamente” a risolvere la Questione meridionale con la creazione in Italia di due macroregioni confederate, le quali, sulla base di due autonomie integrative, possono consentire, finalmente, una ristrutturazione economica e sociale per lo sviluppo dell’Italia del sud.

Ecco la truffa dietro le parole di Sergio Mattarella e Isaia Sales

Ma chi dovrebbe personificare una svolta del genere? Secondo uomini come Mattarella e Sales, la stessa politica nazionale e la stessa vuota e improduttiva classe dirigente meridionale che hanno, per decenni, mantenuto il Mezzogiorno in uno stato di arretratezza, subalternità, sottosviluppo indotto e a intento coloniale.

Provando a zittire questa politica asservita e corrotta che, in continuità con tutto ciò che ha significato il Risorgimento sabaudo e la disintegrazione di una parte della penisola ad esso conseguente, cerchiamo di capire meglio chi debba essere chiamato a risolvere la Questione meridionale, con gli strumenti speciali di un Ministero del Mezzogiorno e con la creazione della macroregione meridionale italiana (che in autonomia dal Nord e in collaborazione con lo stesso, raggiunga una effettiva unità e integrazione politica, economica, sociale, dell’Italia).

La prima soluzione per risolvere la Questione meridionale

Ancora una volta non bisogna partire dall’alto, sovranizzando un paese con la coercizione del diritto e di una ricetta economica estranea al Sud, ma dal basso, affinché si gettino forti e salde fondamenta. Bisogna prima di tutto porre una questione politica, di identità ed emancipazione storica e progettuale delle masse declassate, sottosviluppate e indebitate del Mezzogiorno.

In altre parole, organizzando, unendo, identificando, attorno a un programma di emancipazione economica e sociale, i lavoratori precari e disoccupati, sfruttati e spoliticizzati, fino ad oggi migranti o ridotti in schiavitù, è possibile creare quel popolo meridionale in grado di strappare con forza (e violentemente se necessario) gli estremi per ristrutturare il suo tessuto produttivo e recuperare la sua autonomia macroregionale. Dal basso, dunque, e non a partire da chi per decenni ha vissuto di rendita e assistenzialismo, in complicità con chi ha mantenuto a suo vantaggio il Sud in arretratezza, la Questione meridionale va assunta e risolta.

Unendo l’Italia integrando ed emancipando il Meridione

Una nuova e indipendente soggettività politica, cosciente del proprio ruolo, potrebbe creare quelle condizioni di possibilità per uno sviluppo economico di piano, stabile e diffuso. L’agricoltura meridionale va ristrutturata al fine di contrastare la penetrazione, indebitante, dei prodotti settentrionali e raggiungere un’autonomia meridionale di produzione e consumo. Raggiunta un’autosufficienza e una prima accumulazione di capitali agricoli, si potrebbe poi ripensare a un intensivo ed estensivo sviluppo dell’industria leggera (da concretare non a partire da finanzieri come Cragnotti o Lettieri ma da imprese cooperative, capaci di avviare una stabile e piena occupazione di quello che una volta fu detto il “proletariato esterno”).

Ristrutturazione dell’agricoltura e sviluppo in tutto il Meridione della piccola e media impresa

Sui due pilastri di un’agricoltura meccanizzata (e industriale) e su un’industria leggera meridionale indipendente potremmo, finalmente, avviare il Mezzogiorno alla sua emancipazione complessiva (e sentita, reale, integrazione con il resto d’Italia).

In conclusione bisogna ritornare a pensare politicamente l’unione nazionale su reali modelli di integrazione e, come vale anche per l’attuale e fallimentare modello europeo, porre da parte l’ideologia tecnocratica e il capitalismo monopolistico e coloniale del debito indotto. A partire dal basso, da quelle masse di lavoratori, oggi come da 150 anni privati di una tutela del lavoro, a partire da quei lavoratori migranti o sporadicamente occupati, precari o schiavi, è possibile invertire la rotta del sottosviluppo e su basi autonome, macroregionali, costruire una forte integrazione, una salda unione, un unico popolo.

Bisogna fare prima gli italiani (o gli europei) e poi si unirà l’Italia (o l’Europa)

Attualmente, in Italia come in Europa, la crisi globale non sembra offrire segnali di ripresa (cosa che innervosisce e destabilizza, addirittura, gli altri mercati) e ciò non dipende da una scadente qualità delle nostre culture ma da un sistema capitalistico europeo a totale svantaggio del lavoro, delle aree meno sviluppate e dei concorrenti economici privi di egemonia. L’iniqua distribuzione della ricchezza, in quarant’anni, ha provocato una proletarizzazione delle masse, la polverizzazione delle classi e, soprattutto, la differenziazione dei lavoratori in operai tutelati dal blocco industriale-sindacale del Nord e in lavoratori “esterni” a questo sistema.

Con la globalizzazione i salari reali hanno perduto terreno rispetto alla produttività del lavoro che (attraverso la totale sussunzione reale delle scienze al capitale) è arrivata a livelli esponenziali, a totale vantaggio dei profitti. Ma come dicono anche economisti del calibro di Alberto Bagnai, e prima di lui marxisti non ortodossi come Nicola Zitara, affinché il capitalismo funzioni e svolga storicamente il suo ruolo, se non è sostenuto da una stabile e diffusa occupazione e salari adeguati, non può che sostenere il consumo finanziandolo con il debito.

Quest’ultimo, come ha dimostrato la crisi dei mutui americani, è la via eletta al suicidio di massa e a un futuro di disintegrazione sociale, politica ed economica. Il debito indotto, come dimostra il Mezzogiorno d’Italia, condanna al sottosviluppo, all’indebolimento dei sistemi produttivi e alla distruzione dell’economico sistema dei vasi comunicanti. Un euro tedesco “ha permesso ai cittadini del Sud di finanziare più facilmente il consumo di beni prodotti dal Nord (…) e li ha indotti ad accettare politiche di decompressione dei salari e dei diritti” (A. Bagnai). Ciò sta avvenendo in Italia con il Governo Renzi e per decenni, con lo strumento della finanza tosco-padana, è avvenuto nell’Italia meridionale.

Come già detto in altri sedi la soluzione, ancora una volta, deve essere quella di una politica di massa, organizzata e militata da chi realmente nutre il desiderio e la necessità di lottare per l’emancipazione e una reale integrazione delle differenze in un unico popolo europeo (come in un unico popolo italiano).