Il 18 maggio 1992, Giovanni Falcone compiva 53 anni. Festeggiando il suo compleanno con la moglie, Francesca Morvillo, la sua famiglia, gli amici più cari, tra i quali Paolo Borsellino, ma, soprattutto, con quella che era diventata una vera e propria estensione di se stesso per il giudice. La sua scorta. Tutti ignari che soli cinque giorni dopo, sull’autostrada Palermo-Trapani all’altezza dello svincolo di Capaci, Giovanni Brusca avrebbe azionato il telecomando, che ha posto fine alla vita del magistrato, della moglie e degli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro
Per Giovanni Falcone la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani avrà anche una fine
Ma forse il giudice Falcone era l’unico a non esserlo del tutto. Ignaro. A non aver dimenticato ciò che stava facendo e come il conto aperto con Cosa Nostra “non si sarebbe chiuso mai”. Come ebbe a dire Tommaso Buscetta in un famoso interrogatorio. Ma non per questo si era fermato. Non per questo aveva smesso di andare avanti. Tutt’altro. Consapevole che la mafia sia “non affatto invincibile”. Ma “un fatto umano. E come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”, ha continuato a lottare fino a quel quel giorno. A quel 23 maggio 1992.
Giovanni Falcone ha sempre affermato che l’importante è non farsi condizionare dalla paura
Chissà dove sarebbe oggi Giovanni Falcone, se fosse stato un uomo normale. Se si fosse arreso alla paura. Se avesse venduto le sue idee come troppo spesso avviene in questo paese. Sarebbe seduto magari attorno a un tavolo. A festeggiare i suoi 76 anni con la moglie, la famiglia e gli amici di sempre. Come ha fatto quel giorno, per l’ultima volta. Ma poi cosa sarebbe stato di noi? L’esempio dato da Giovanni Falcone, nel giorno di quello che sarebbe stato, anzi, è il suo compleanno, trova ancora maggiore forza, proprio perché lui non si è piegato. Non si è arreso alla paura. Ma lui lo sapeva. Lo ha sempre saputo. “Importante non è stabilire se uno ha paura, ma imparare a non farsene condizionare”.
Giovanni Falcone voleva “solo” sconfiggere la mafia applicando la legge
Si racconta che un giorno lui e Paolo Borsellino, altro magistrato che ha dato la vita perché quelle di tutti noi fossero libere, si trovassero a pranzo insieme. E il collega e amico di sempre disse: “Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.