A quaranta anni dalla riforma della Polizia

0
425

L’editoriale di Vincenzo Vacca

Con la legge n. 121 del primo aprile del 1981 veniva radicalmente trasformata la Polizia. Il cambiamento epocale era evidente già nel cambio del nome: da Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza in Polizia di Stato. Infatti, il termine di “Corpo” esprimeva una entità separata dal resto delle Istituzioni, ma soprattutto dalla società civile. Con quella nuova denominazione si voleva dare subito una idea di Polizia al servizio del cittadino, non contro di esso.

La riforma del 1981 era il frutto di una serie di battaglie iniziate soprattutto alla fine degli anni ’60 da parte di quelli che vennero chiamati i poliziotti “carbonari”, i quali all’ inizio erano una sparuta minoranza, ma progressivamente riuscirono non solo a coinvolgere un vasto numero di loro colleghi, ma suscitarono l’ attenzione, il consenso e, infine, la solidarietà di tanti lavoratori e cittadini non in divisa a partire dai sindacati confederali ( i quali, tra le varie forme di appoggio a quella battaglia, indissero una ora di sciopero generale nazionale) per arrivare ai partiti di sinistra e a diversi intellettuali. Basti pensare a uomini come Norberto Bobbio o a Stefano Rodotà. Infatti, quel movimento dei poliziotti era mosso non solo da una aspirazione volta a garantire una maggiore e migliore dignità del lavoro del tutore dell’ ordine, ma il suo sguardo andava oltre e si poneva innanzitutto lo scopo di ricucire i rapporti tra i lavoratori della Polizia con il resto del mondo del lavoro.

Fino a quegli anni i su menzionati rapporti non erano certamente dei migliori. La figura del poliziotto era molto vista e descritta come quella del celerino pronto a intervenire, spesso con violenza esagerata, per reprimere manifestazioni operaie e studentesche. Uno dei principali meriti del movimento dei poliziotti che chiedevano la riforma è stato proprio quello di riuscire a dialogare con tutti, costruendo, di fatto, una operazione sociale di carattere inclusivo.
Ricordo ancora una delle tante affermazioni di quegli anni: “il poliziotto dentro la piazza, non contro la piazza”.

Venivamo da anni in cui la gestione dell’ ordine pubblico, come ricordato poc’ anzi, si era caratterizzata da una serie di scontri violenti che avevano prodotto anche numerosi morti. Urgeva, quindi, una svolta democratica che invertisse tutto ciò e, infatti, la legge di riforma stabiliva l’ unicità dell’ Autorità nazionale di pubblica sicurezza, identificata nel Ministro dell’ Interno ovvero una Autorità completamente civile.

Ma il principio che ritengo fondamentale della riforma in argomento è lo stabilire che la militarità nella attività di polizia di ogni genere non è sinonimo di efficienza, anzi lo status “civile” del poliziotto rende il lavoro di quest’ultimo al contempo agevole ed efficace, perché può entrare meglio in relazione con il mondo circostante, pur adempiendo, naturalmente, ai suoi doveri Istituzionali. Per dirla con le parole del Presidente Mattarella, ha generato una “empatia democratica guadagnata sul campo anche nei giorni durissimi” della attuale pandemia. La legge 121, non dimentichiamolo, fu discussa e approvata in un periodo in cui il Paese era ancora sotto attacco dal terrorismo rosso e dallo stragismo neofascista. Nonostante ciò, confutando la tesi conservatrice e reazionaria, secondo la quale la legge avrebbe indebolito la Polizia in un momento storico drammatico sotto il profilo della sicurezza, la lungimiranza dei propugnatori della riforma ha dimostrato in concreto esattamente il contrario. Una Polizia a struttura civile e democratica è stata di fatto molto più all’ altezza nella sua attività di prevenzione e repressione del terrorismo e di ogni crimine.

La riforma della Polizia aveva anche un altro aspetto altamente simbolico, e questo viene poco sottolineato, nel rendere trasparente e dialogante un pezzo non piccolo del sistema sicurezza del nostro Paese. Infatti, il quegli anni il prestigio degli apparati di sicurezza era fortemente scosso anche dalle notizie di scellerati rapporti tra infedeli funzionari di pezzi dello Stato con elementi dell’ eversione neofascista.
La legge 121, anche da questo punto di vista, restituiva nel corso degli anni un rapporto di fiducia tra Polizia e cittadino.

La smilitarizzazione ha significato aprire alla parità di genere, infatti solo allora si iniziava a garantire alle donne pari modalità di accesso e di carriera, ma è iniziata, e sempre più rafforzata, una teoria della sicurezza condivisa e partecipata per la quale uno strumento fondamentale è la collaborazione attiva della cittadinanza ai fini della prevenzione dei reati.

Ogni epoca storica ha le sue profonde caratteristiche che danno, anche attraverso la qualità della produzione legislativa, il senso profondo della stessa. Mi riferisco alla presenza di una forte politica democratica in grado di prospettare visioni e di avvertire una sensibilità sociale. La rappresentanza politica, particolarmente quella radicale e di sinistra, ma anche importanti settori laici e della D.C., riusciva in quegli anni ad essere autorevole a tal punto ad approvare una legge di rafforzamento democratico e, quindi, ignorando tutta una serie di paure che pure erano presenti nell’ opinione pubblica per i motivi che sono stati detti. Adesso per la mancanza di progettualità politica, sarebbe impensabile un atto di coraggio di quel genere, perché questo è stato, da parte del legislatore di allora. Questa ultima considerazione non vuole essere una riproposizione della nostalgia dei “bei tempi andati “, bensì una indicazione finalizzata a recuperare una capacità di legiferare, e più in generale di azione politica, che abbia uno sguardo a lungo termine.

Se si paragona tutto quello che ho evidenziato con la sciagurata scelta di qualche anno fa di rimilitarizzare il Corpo Forestale dello Stato in nome di una non meglio precisata riduzione delle spese pubbliche, cadono davvero le braccia.
Infatti, sarebbe stato sufficiente inquadrare il CFS nella Polizia di Stato per ottenere sia il risparmio finanziario, che sostanzialmente non c’è stato, sia la tutela delle libertà sindacali. Quelli che dovrebbero essere gli eredi storici dei grandi partiti di massa non hanno avuto alcun sguardo oltre al proprio ombelico. Un ulteriore aggravante di quanto detto è il fatto che, nonostante la Corte Costituzionale abbia stabilito pochi anni fa che i militari possano avvalersi di relazioni sindacali, pur entro certi limiti, il Parlamento non ha ancora provveduto in tal senso. Quindi, non solo tutti i gruppi politici hanno dimostrato di non essere in grado di recepire le istanze provenienti dai militari, ma anche di non adempiere a quanto indicato dalla citata Suprema Corte. Scrivo questo non per alimentare una inconcludente e perniciosa antipolitica, ma per sollevare una forte incapacità di elaborazione politica in tema di sicurezza democratica e di attività militare.

Non dimentichiamo che l’ Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza sono ancora ad ordinamento militare. Certo, anche questi Corpi di Polizia sono stati positivamente influenzati dallo spirito di rinnovamento della legge 121, ma in modo insufficiente. Per sua natura, l’ attività di polizia deve essere completamente sganciata da mentalità militari che, a parere di chi scrive, limitano l’ efficacia in ordine alla prevenzione e repressione dei reati. Ma soprattutto mancano i luoghi dove poter elaborare in modo partecipato le tematiche della tutela della sicurezza con particolare riferimento agli ordinamenti interni delle varie Forze di polizia. Di questi ultimi, ce ne ricordiamo solo quando accadono fatti eclatanti. Per qualche giorno se ne parla, spesso banalizzando le questioni, e poi vanno nel dimenticatoio.

Ecco perché occorre recuperare, anche al fine di attualizzarle, le idee dei poliziotti “carbonari” che avevano osato pensare in grande. Avevano osato, in buona sostanza, che occorreva rafforzare la democrazia.