di Bruno Marra.
Il vero dolore non ti lascia neppure il lusso di piangere. Non ho parole, io che ne ho adoperate tante per vivere, sognare e raccontare. Io che ho cercato per anni le parole migliori per descrivere il mio unico Re, il campione, l’idolo ma soprattutto il mio amico d’infanzia, quello che mi ha promesso ciò che non avevo avuto neppure il coraggio di chiedere. L’unica manifestazione messianica vivente che abbia mai tradotto le mie preghiere.
Sin da quel primo giorno, quella prima notte in cui ho capito cos’è l’amore…
Eravamo in fondo ad una calda estate di giugno. L’aranciata nelle bottigliette di vetro e i ghiaccioli a 100 lire erano la nostra ricchezza. Ma quel giorno non avevamo né fame, né sete. La vetrina delle meraviglie stava per chiudere. Ciro del Bar stava abbassando la saracinesca.
Ciro era il nostro informatore di fiducia, con la radiolina Phonola sempre accesa e attaccata al muro, quando Internet non era neppure sul vocabolario.
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“Ciro che dice ‘a radio?”. Ciro non teneva manco la forza di girarsi. Presi io il coraggio della disperazione.
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“Ciro pe’ favore, che dice ‘a radio!?”.
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Ciro si voltò senza guardarci. “E’ fernuta guagliù, Maradona nun vene cchiù…”.
Il silenzio assoluto fu interrotto da Luca che diede un pugno al cielo. “Ma che ne sape ‘a radio! Aspettamm dimane!”
Non c’era nessun domani, era l’ultimo giorno di mercato. Un minuto solo cancellò il nostro futuro. Cristian strinse gli occhi rassegnato come prigioniero di un presagio: “Lo sapevo, ‘o sapevo io, siamo una città maledetta, tenimm ‘na maledizione ncuollo. Nun vincimm maje! Non vinceremo mai…”. Urlava e singhiozzava, voltò le spalle e si avviò a casa. Non voleva farsi vedere mentre piangeva.
Ce ne tornammo anche noi. Il cammino dell’ultima speranza. Ma quella strada che ci divideva dalle case nostre sembrava davvero un Golgota.
Televisione, telegiornale, senza passare per la cena. E che vuoi mangiare. Al primo canale un omino in grigio con lo sguardo scuro ci diede la notizia: “è sfumato il sogno del Napoli, Maradona resta a Barcellona”. Teneva ragione Ciro.
E subito dopo passò il servizio con i gol di Diego, giusto per darci l’ultima coltellata.
Ma al rientro in studio quell’uomo grigio diventò un re Magio. “Attenzione ci dicono che si è riaperta la trattativa per Maradona”. BUM!
Credo che esattamente in quel momento un gigante avesse dato un pugno al centro del Mondo. Iniziò l’onda sismica, un tam tam che si scatenò porta a porta, balcone per balcone, palazzo per palazzo, quartiere per quartiere. Eravamo sospesi tra le onde del mare, aspettando che arrivasse il messaggio nella bottiglia.
Telefonini, antenne, parabole, piattaforme al tempo erano fantasie da Odissea nello Spazio. Le uniche tv possibili erano quelle private che quel giorno diventarono più importanti della CNN. Perché ad un certo punto della notte, come per il discorso del Presidente a Capodanno, le televisioni trasmisero a reti unificate una sola scritta enorme: MARADONA E’ DEL NAPOLI. Una frase che lampeggiava forte come a scandire il ritmo del nostro cuore.
Prendo il telefono, quello con la rotella al centro. Chiamo Luca, sette interminabili giri di ruota. “Pronto!” Non so chi risponde. Forse il padre, il fratello, lo zio, il nonno, un’intera generazione tutta insieme. Sento solo urlare.
Scendo, vado da Cristian.
Mia madre palpita: “Ma addo vaje, scinn a chest’ora!?”.
“Sì, a chest’ora!”
Busso la porta al secondo piano, Cristian lo ritrovo come lo avevo lasciato. Piangeva e chiagne ancora. Ma stavolta le lacrime hanno un altro colore, bianche di splendore.
Mi abbraccia forte, non ci crede: “è vero Brù? E’ ‘o vero!?”.
– “E’ ‘o vero, è ‘o vero”.
Scendiamo nel parco. Il primo che vedo è Luca. Lui non c’ha la tenerezza in volto, no, tiene la faccia da guappo. Quella che chissà quante volte si era sognato. Sembra il re di Napoli, fiero con una bandiera azzurra in mano. Lui il più piccolino, ‘o cchiù piccerillo, con addosso l’orgoglio di un’intera famiglia.
Cominciammo a correre, cantare: “Diego-Diego”. Il mantra della nuova Terra Santa. Bussavamo i citofoni di quelli che conoscevamo e anche di chi neppure sapevamo. La gente si affacciava, alluccava: guagliù che state cumbinanno, che sta succerenno!?
Che sta succedendo. Stiamo vincendo. Per la prima volta della nostra vita. Chest sta succerenno. Stamm vincenn.
In quella infinita giornata di giugno, lì dove nacque il sogno. La prima notte di beatitudine che ci condusse all’alba di trentanni di Dieghitudine.
Sono passati 36 anni da quel giorno di giugno. Il 25 novembre del 2020 sarà per sempre la data della nuova apocalisse, quella che dividerà l’Universo nel prima e dopo l’avvento del nostro Messia.
Il vero dolore non ti lascia neppure il lusso di piangere. Ma da domani tornerà il sorriso.
Perché chi ha vissuto nel nome di Diego non conoscerà mai la morte.