“Di me nessuno parla, perché la mia ‘non morte’ fa notizia a metà”. Nel carosello mediatico della cronaca, anch’esso assoggettato alle leggi del marketing, si sa che una notizia diventa degna di tale nome solo quando ci scappa il morto. Ma Francesca Di Donato non ci sta, perché lei, che faceva la cameriera in un pub di Aversa per sbarcare il lunario e intanto studiava Giurisprudenza, a 23 anni nella giustizia ci crede (ancora). Ci crede, nonostante quello che le è capitato: il tragico scippo che ha cambiato per sempre la sua vita. Ma di cui nessuno parla.
Mentre usciva dal pub dove lavorava ad Aversa, Francesca è stata aggredita da due scippatori in automobile, che hanno tentato di sottrarle la borsa, con all’interno la paga della serata; Francesca ha opposto resistenza, perché in quella borsa “c’era il frutto dei miei sacrifici e della mia umiltà”, è stata trascinata dai due e poi travolta dalla loro auto, perdendo la milza e un rene.
Ma per Francesca nessuno è sceso in piazza a protestare, nessun corteo è stato organizzato, nessuno striscione è stato affisso nei luoghi che frequentava, casa, pub, università. Anche il sit-in di protesta di sabato 20 settembre ad Aversa è passato sotto silenzio. Perché? Semplicemente perché Francesca, fortunatamente, non è morta in seguito all’aggressione subita, o forse perché di aggressioni come quella capitata a Francesca ne succedono tutti i giorni, e in una terra che è abituata a vivere sotto l’egida, a volte percepita anche come benevola, della criminalità organizzata, i piccoli atti di violenza quotidiana passano sotto silenzio, nell’indifferenza generale e senza smuovere più le coscienze?
Tutto questo, Francesca se lo chiede in una lunga lettera che sta facendo il giro del web. E che ha come obiettivo proprio di provocare quel sommovimento interiore, quello smuoversi che è alla base di ogni presa di coscienza, e poi dell’identità e della libertà di ogni individuo e di ogni popolo.
Mi chiamo Francesca Di Donato, ho 23 anni, sono originaria di Sant’Antimo e sabato notte avrei voluto tornare a casa, solo tornare a casa. Com’è sempre stato e come nessuno, adesso, è in grado di stabilire se, come e quando accadrà ancora. Sono una studentessa, frequento la Facoltà di Giurisprudenza e questo, anche al cospetto di una tragedia come quella che sto vivendo, deve esortarmi a credere nella giustizia. Per mantenermi gli studi, il sabato sera, lavoro in un pub ad Aversa, ma mai avrei immaginato che questo potesse costarmi la milza e un rene.
Dei balordi mi hanno scippato la borsa, ho opposto resistenza, perché la dignitosa cifra lì riposta era il frutto dei miei sacrifici, della mia umiltà, così sono stata trascinata per una decina di metri e poi travolta dalla loro auto. Mi hanno spappolato la milza e mi hanno lesionato un rene.
Ma sono ancora viva, quindi, “la mia tragedia fa notizia a metà.”
Ciò che mi esorta a scrivere queste parole è l’ossessiva e continua ricerca della risposta da incastrare in un unico e semplice quesito che mi balena nella mente dallo scorso sabato, da quella notte che mi ha segnato per sempre la vita: perché di me nessuno parla? Forse, perché, chi nasce, cresce e vive nella terra della Camorra deve aspettarsi, prima o poi, di rimanere arenato in brutali episodi di criminalità, con quella medesima, costernata e lancinante rassegnazione che imprime nelle nostre coscienze la consapevolezza che, prima o poi, ci beccheremo un tumore, perché le radici irrimediabilmente avvelenate della nostra terra non lasciano posto alla speranza.
Eppure ci riveliamo incapaci di concludere che l’origine di quel male che ha avvelenato le nostre terre, le nostre vite è la medesima che la deturpa avvalendosi di altre modalità e forme: la criminalità. Forse perché subire è quella che, erroneamente, crediamo essere la strada più facile da perseguire.
In mio nome non ho visto radunare cortei; non ho visto svolgere manifestazioni per invocare giustizia per la sciagura nella quale la mia vita è rimasta imbrigliata; nessuno osa dire a voce alta, ferma e convinta: “basta” alla criminalità e alla violenza che investono quotidianamente le nostre vite; le mie foto, quelle che raccontano la solarità e la voglia di vivere insita nei miei occhi e nel mio sorriso, non vengono divulgate attraverso i social, le tv e i giornali; i media non parlano di me, nessuno si chiede come sto, quando tornerò a casa e quali conseguenze irreversibili ha sortito nella mia vita da semplice e genuina aspirante donna quell’inumano e ferino scippo.
Se fosse servito a smuovere l’opinione pubblica verso un accorato ed intransigente atto di ribellione, al pari di quello che gli abitanti del Rione Traiano si sono cuciti addosso fin dagli attimi immediatamente successivi alla morte di Davide Bifolco contro le forze dell’ordine, le ferite che mi deturpano corpo ed anima non sarebbero guarite, ma farebbero meno male.
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