All’età di 96 anni si è spenta Alberta Levi Temin, ambasciatrice di pace tra le religioni e le culture, amata e stimata dalle religioni e dalle culture.
Alberta Levi Temin era una sopravvissuta alla Shoah, ma era e resta una donna dallo sguardo profondo e acuto, dalla voce dura e gentile insieme, dai modi eleganti ma semplici, dalla forza e dal coraggio di reagire con amore a quello che la storia ha avuto in serbo per lei.
Di certo la sua sofferenza e l’essere sfuggita alla retata del 16 ottobre 1943 mentre si trovava a Roma in fuga da Ferrara, città natale, ha segnato la sua esistenza come quella di tutti coloro che hanno diviso direttamente o indirettamente la medesima condizione.
Eppure, Alberta non era solo una sopravvissuta e quello che resta di lei non è la dolorosa storia di un passato dilaniante.
Alberta non si lagnava, mai. Quando cominciò a parlare nelle scuole, ai ragazzi, perché conoscessero quella storia, Alberta non parlava solo della sua storia, ma della storia di quelli che la ascoltavano, non parlava del passato ma del futuro.
Il suo tono caldo, la voce forte e determinata, il linguaggio corretto ma semplice e diretto, avevano quasi un effetto ipnotico su chi ascoltava non solo per la storia narrata, dolorosa e disarmante, ma perché parlava di responsabilità per il futuro.
Alberta aveva la capacità di parlare con il cuore al cuore, ma stimolava anche il cervello e l’azione perché quando l’atroce male è commesso, si sa che può essere ripetibile.
Alberta raccontava la sua esperienza ampliandola con un inquadramento storico e sociale che consentiva a chi la ascoltava di sentirsi protagonista, non carnefice, di una storia che invita tutti alla responsabilità verso l’altro.
Alberta non viveva nel passato, ma costruiva il futuro dimostrando che dalle proprie ceneri si può risorgere e che delle proprie ferite si può fare dono all’altro affinché diventi consapevole protagonista della storia.
Mirabile la sua capacità di entrare senza compromessi nei dibattiti sulle religioni, sulle culture e sulla pace; Alberta non chiedeva un trattamento speciale per gli ebrei, Alberta parlava di ascolto, di condivisione oltre la religione e le culture.
Nessuno studente che l’abbia ascoltata potrà mai dimenticare l’esempio della piramide che sempre Alberta faceva per spiegare la diversità convergente di tutte le strade che seguono loro misteriosi percorsi per ricongiungersi a un unico Dio, D. in ebraico.
La vita di Alberta è stata la vita di una donna che dal vuoto e dal buio ha saputo ricostruire il presente e il futuro insieme alla sua famiglia e non voglio ricordarla come una sopravvissuta, perché per me è molto di più… è l’accoglienza in casa sua con tè e biscottini, è il viaggio insieme fino a Fabriano accompagnate da alcuni miei alunni per parlare alle scuole di questa località marchigiana, è l’aver diviso una stanza, i ricordi e i sogni, le gioie e le preoccupazioni per un tempo strano.
La sua storia può essere letta in “Altro non siamo che voce”, Armando editore (2011), dove compare anche un’intervista da lei rilasciata in occasione della sua visita presso le Scuole Pie Napoletane.
Ricordo la sua preoccupazione per il tempo attuale quando, una delle ultime volte che sono stata a casa sua, lei disse “chissà se è solo un vento che soffia” ripeteva le parole di suo padre, a Ferrara, quando non voleva accettare che davvero la situazione degli ebrei fosse così grave.
Alberta, però, non si riferiva al passato. No, lei pensava ai giovani senza lavoro, al crescente disagio contro gli immigrati, all’emarginazione di tanti uomini e donne, alla grave situazione in Palestina… “E’ giusto che i palestinesi abbiano una terra…”, diceva, memore del sacrificio di essere oriundi sulla terra.
La storia di Alberta e con Alberta, non finisce, ma continua nella voce di quanti l’hanno ascoltata.
Per accomiatarmi, voglio dividere con voi le sue parole, ricopiando una delle tante mail che in questi anni ci siamo scambiate; parlando di umanità lei scrive:
“Noi non siamo mica tanto normali. Soprattutto per un profondo senso di giustizia, per tutte le violenze e le ingiustizie subite… Noi che abbiamo sentito parlare fin da piccoli di sassate ricevute fuori scuola, di fughe, di doversi nascondere, di spiate, di avere perso tutto e di dover ricominciare daccapo… di fratelli buttati nel fiume (Danubio), di treni e di ritorni fortunati, di chi non è tornato… altrove di foibe, di arresti e sparizioni, danni di guerra… io ne sono venuta fuori e ho raccontato senza odio, ma mi sono resa conto, però, che per noi certe parole hanno a volte un significato diverso da quello normale. Il forno, bruciare, ad esempio. I camini, il campo. E mi è venuto da pensare che in mezzo a noi tutti, in Italia, in Europa, ci sono probabilmente tante persone per le quali altre parole hanno significato che fanno male e che noi non immaginiamo. L’acqua, il mare, ad esempio, per i migranti che sono riusciti a farcela. Camion, fumo per chi è arrivato nascondendosi sotto un camion. E chissà quante altre! Mi è venuto in mente mentre parlavo ai ragazzi in una scuola un po’ difficile; avrei voluto chiedere “a voi quali sono le parole che fanno male?”. Sono convinta che niente sia paragonabile al genocidio degli ebrei, ma, mi sono detta, ma forse la Giornata della Memoria dovrebbe servire a chiedersi “Tu, che sei di fianco a me, chi sei? Qual è il tuo dolore?”.
Ecco, questa è Alberta. Io continuerò a essere voce.
di Loredana De Vita
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