Antonella Leardi scrive a Mattarella: “Le hanno ucciso un fratello, riesce a dimenticarlo?”

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Antonella Leardi, madre di Ciro Esposito, ucciso dall’ultras della Roma, Daniele De Santis, il 3 maggio 2014, in occasione della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A riportarla, il quotidiano Il Mattino. “Mi chiamo Antonella Leardi e scrivo a Lei che rappresenta il mio Paese, perché per alcune responsabilità delle nostre istituzioni, io ho dovuto seppellire mio figlio: un fatto innaturale, la peggiore sorte per un genitore; e Le scrivo, in quanto Lei è presidente del Consiglio superiore della Magistratura, perché, se come madre sono avvilita, come cittadina sono disgustata, indignata, furiosa per come non la Giustizia, ma l’interpretazione della legge abbia offeso la memoria di mio figlio, Ciro Esposito, e irriso il dolore e l’attesa di giustizia di noi, suoi parenti, e degli italiani. Quasi non volevamo credere che un tribunale avesse ridotto da 26 a solo 16 anni, la pena per l’assassino di mio figlio. Aspettavamo le motivazioni di quella incomprensibile sentenza, per capire. E ora le abbiamo. No, Signor Presidente, no, no, no e no! Non accetto, non posso consentire che la tragedia che ha distrutto la nostra famiglia sia definita “una bravata” dal tribunale che doveva renderci conto del crimine e del dolore che ha cambiato le nostre vite; è un insulto che un omicidio sia ridotto a malaugurata azione “dimostrativa”. Dimostrativa di che? Di quanto si può sopravvivere dopo essere stati sparati con una pistola? La logica e la decenza si ribellano all’idea che si cerchi di giustificare l’assassino, “insofferente per la presenza di tanti tifosi napoletani”. Ma davvero? E si ha il coraggio di riportare questo incredibile argomento nella motivazione di una sentenza che quasi dimezza la pena per l’omicidio di uno sconosciuto, colpevole di essere tifoso di un’altra squadra? E, di grazia, vorrà il magistrato chiedere all’assassino qual è il numero di tifosi che è disposto a far andare allo stadio, senza che lui ne ammazzi qualcuno? Non esagero, Signor Presidente, quando affermo che la motivazione della vergognosa sentenza per l’omicidio che ha devastato la mia famiglia, sembra mirare a una continua sottostima del valore della vita della vittima e a un funambolico tentativo di “comprendere” le ragioni dell’assassino e minimizzarne la colpa. Altrimenti, come commentare l’affermazione che il boia di mio figlio, prima di finirlo sparando con una pistola, avrebbe lanciato sì, dei petardi contro i tifosi napoletani in transito, ma “alcuni gioiosamente”. E quanto gioiosamente ha poi premuto il grilletto? Se lo Stato umilia così la vittima, invece di renderle giustizia e tutela, cosa diviene lo Stato, se non un complice dell’omicida? Uno Stato che ha responsabilità enormi nella morte di mio figlio: Ciro e i suoi amici andavano allo stadio, lungo il percorso consigliato dalle autorità di pubblica sicurezza e sul quale la sicurezza è mancata al punto che è stato commesso un omicidio. E percorso lungo il quale compaiono e scompaiono, lì “per caso”, secondo la motivazione della sentenza, sei individui con i caschi che li rendono non identificabili. E quello era il percorso “sicuro”? Lo Stato e le sue leggi hanno consentito ad un soggetto già noto alle forze dell’ordine di aggredire degli inermi passanti, armati solo di bandiere e fischietti, lo hanno lasciato girare armato. Io non so quanto ci sia di vero, Presidente, nelle voci di presunte “coperture istituzionali” a favore del killer di mio figlio, ma certo l’andamento giudiziario che pare così tanto volgere a suo favore e le incredibili, intollerabili espressioni usate nella motivazione della sentenza che lo premia, invece di punirlo, invece di spegnere quelle voci le amplificano. Mio figlio è morto e può essere insultato da morto, lui e noi, perché privi di “protezioni”? Non ci voglio credere e non vorrei nemmeno pensarci. Ma sta a Lei, ora Presidente, al Consiglio superiore della Magistratura, allo Stato convincermi che non è così. Mio figlio, già moribondo, quasi ha dovuto sentirsi gratificato dal riconoscimento, da parte di una stampa che pareva indagare più sulla vittima che sul killer, che lui, il mio Ciro, “pur essendo di Scampia”, era un bravo ragazzo e noi persone perbene. Perché, se sei napoletano, e peggio di Scampia, sei colpevole sino a prova contraria. E se, per assurdo, Ciro avesse rubato un motorino a 14 anni, sarebbe stata giusta la sentenza di morte eseguita da un pregiudicato 17 anni dopo? Non è una eccezione essere persone perbene a Scampia. Siamo centomila persone, a Scampia, Presidente. I parenti delle vittime sono sempre un po’ fastidiosi: si lamentano; pensano solo a quello che si è abbattuto sulle loro vite; gli altri, dopo un po’, si interessano di nuovi argomenti, magari persino nuove tragedie, ma nuove, diverse. Io lo capisco questo, lo avverto. Ma il vuoto che Ciro ha lasciato nelle nostre vite lo vediamo, lo viviamo, lo soffriamo ogni giorno. Come fai a spiegare a chi non lo ha vissuto, che da quel momento, quell’assenza è l’unica cosa che sovrasta tutta la tua vita e il resto…, il resto? Il resto di che? Le hanno ucciso un fratello, Presidente. Lei riesce a dimenticarsene? Riesce a svegliarsi la mattina senza pensare: lui non c’è? Riuscirebbe a tollerare che nelle motivazioni per l’omicidio di Suo fratello si potessero leggere banalizzazione della Sua tragedia e della vita soppressa con termini quali “bravata”, azione “dimostrativa”, persino l’individuazione di gesti “gioiosamente” compiuti nel corso dell’aggressione che si conclude con l’assassinio? Se la legge consente questo, la legge è sbagliata. Se la legge non lo consente, è sbagliata l’interpretazione della legge. No, io rifiuto con tutto il mio dolore, la ragione e il rispetto per quel ragazzo stupendo che era mio figlio, una banalizzazione della sua morte e del crimine, così come appare nelle motivazioni della sentenza. Chi doveva darci giustizia sta calpestando noi  e il nostro dolore e uccide Ciro per la seconda volta. Signor Presidente, credo in Dio e prego anche per chi ci ha fatto del male; sono stata educata a essere una cittadina rispettosa dello Stato, quale bene comune; e così ho educato i miei figli. Ma se non dovessi avere nemmeno da Lei un segno di maggiore giustizia, quando scatterete ritti dinanzi al tricolore o per l’inno nazionale, non si sorprenda se io mi girerò di spalle.”