L’enciclopedia Treccani da oggi in poi ha una nuova voce che riguarda Napoli e i napoletani: l’appocundria di Pino Daniele, quel sentimento a metà tra la tristezza e la nostalgia che i napoletani conoscono così bene da aver coniato un termine, intraducibile in italiano, appositamente per descriverlo, entrerà a far parte del sapere enciclopedico contenuto nella enciclopedia italiana forse più antica e famosa.
L’appocundria di Pino Daniele entra nella Treccani: ecco come è spiegata
Se non ci credete, verificate voi stessi cliccando qui. La versione online dell’enciclopedia Treccani dedica una voce molto ampia all’appocundria cantata da Pino Daniele in una celebre, omonima canzone. Riportiamo di seguito alcuni stralci del lemma:
“Pino Daniele ha scritto e cantato molto nel suo grande dialetto napoletano, fonte di ricchezza per la letteratura e la canzone che da regionali, tante volte, si sono sapute fare patrimonio della nazione. E ci ha restituito, sovrimpresse di venature che in lingua sarebbero state opache, parole che, pur non essendo nuove, nuove suonavano all’orecchio, per via di una potenza evocatrice che soltanto il dialetto era in grado di sprigionare. Come nel caso di appocundria, interfaccia dialettale dell’italiano ipocondria, nel senso semanticamente vago di ‘profonda malinconia’, che tanto sembra addirsi (come hanno scritto Patricia Bianchi e Nicola De Biasi nel 2007, in Totò, parole di attore e di poeta) alla condizione della «napoletanità».
È questa appocundria, nutrita di fatalistica accettazione delle sorti della vita, segnata da una noia esistenziale e venata di scettico ma malinconico distacco per qualcosa di indefinibile che non è, non è stato e non è potuto essere, che si fa cifra di un sentire tutto napoletano nella canzone omonima di Pino Daniele (in Nero a metà, EMI, 1980): «Appocundria me scoppia / ogne minuto ‘mpietto /pecché passanno forte / haje sconcecato ‘o lietto /appocundria ‘e chi è sazio / e dice ca è diuno /appocundria ‘e nisciuno… / Appocundria ‘e nisciuno»”.
Il dialetto non è più “volgare”, ma “colloquiale”
Degno di interesse anche il preambolo teorico che Silverio Novelli, redattore della voce “appocundria di Pino Daniele”, fa nella descrizione del lemma: l’autore sottolinea come il dialetto abbia ormai perduto da tempo la sua connotazione di lingua “volgare”, da “volgo”, che in latino significa popolo, e abbia invece acquisito la più lusinghiera connotazione di lingua “informale”, una sorta di slang (!) familiare, preferita in situazioni confidenziali, in famiglia o tra gli amici, per arrivare dritto al cuore del sentimento, bypassando le formalità linguistiche e grammaticali che la lingua ufficiale, l’italiano, impone a tutti quegli italiani che, soprattutto al Sud, imparano e parlano correntemente anche un dialetto.
La lingua dialettale diventa così “porta spalancata sui sentimenti immediati, grimaldello ludico. Gioco e sentimento: come accade nella letteratura (basti pensare a Camilleri, e non solo), come succede, da anni, nella musica pop e nel rap”.