“C’è ancora domani” per le nostre città?

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“C’è ancora domani” per le nostre città?

La violenza verbale, fisica, psicologica, economica, esercitata sistematicamente dalla figura maschile nei confronti di tantissime donne “ordinarie” nelle case dell’immediato secondo dopoguerra – descritta nel bel film “C’è ancora domani”- mantiene radici solidissime nella società contemporanea, come aspetto di una ben più larga e diffusa violenza urbana.

Potremmo dire che la violenza urbana, a livello globale, è un tratto distintivo del tessuto sociale, riconducibile alla “questione urbana” globale: dal 2008 per la prima volta nella storia più della metà della popolazione mondiale (il 54%) vive oggi in contesti urbani; entro il 2030 due persone su tre, tre su quattro entro il 2050 (dati UN Habitat).

Nel corso della storia, le nostre città occidentali, (l’82% dei nordamericani e il 73% degli europei vive in aree urbane) tradizionalmente concepite come spazi di convivenza, di integrazione e scambio, sono state sempre punto di riferimento e motore dello sviluppo socioculturale, economico-produttivo, dei servizi e dell’innovazione, e anche luoghi dove individuare le soluzioni alle sfide presenti e future.

Negli ultimi 30 anni invece, sotto la spinta di un’urbanizzazione stravolgente e di dimensioni senza precedenti, le aree urbane – con risorse e infrastrutture carenti rispetto alla considerevole crescita demografica- evidenziano problematici e conflittuali crocevia: ampia e drammatica diseguaglianza, elevata esclusione sociale,crescente marginalizzazione economica e territoriale.

La forte urbanizzazione, spesso mal regolamentata e peggio gestita – e quindi ad elevata vulnerabilità – crea “fragile cities”, a forte rischio di quella violenza urbana che secondo KieranMitton caratterizzerà il 21° secolo come la maggiore sfida di malessere urbano da affrontare.

Ma cosa c’è dietro questo malessere?

Nella nuova urbanizzazione viene sempre più a mancare il ruolo chiave naturale dello spazio pubblico come luogo fisico accessibile e fruibile gratuitamente a tutti, dove le persone possono vivere la loro quotidianità: quell’incontrarsi e interagire che sono espressione della diversità e al tempo stesso fondamento di un’identità collettiva. In assenza di questi luoghi deputati a ridurre diseguaglianze, barriere fisiche e sociali, ogni giorno aumenta la frammentazione e diminuisce il senso di vicinanza dei cittadini: insomma si lacera il tessuto socio-antropologico urbano.

Come scrive Andrea Baldazzini “le distanze, i muri, i confini si trasformano in ingiustizia, isolamento, in esclusione, in dis-integrazione, cioè in separazioni”. Si ritorna cioè a una fase di individualizzazione della società, che abdica al ragionare sulla misura non del singolo, ma di una comunità di persone.

Ma come dice Martin Buber, il centro dell’esistenza umana è costituita proprio dalla relazione tra le persone, da quegli “altri da noi” che ci aiutano – certo insieme a contrapposizioni e conflitti – a ritrovare noi stessi e i nostri percorsi.

La fragilità della città è in realtà anzitutto la fragilità di tanti singoli “io” spaesati e insicuri, impossibilitati spesso a interagire con altri nei grandi spazi senza vita delle periferie, e quindi sempre più marginalizzati esistenzialmente. Il collasso urbano in atto è insomma prioritariamente un collasso del vivere insieme, dell’incontro e del dialogo in una città desertificata nei rapporti e nelle occasioni di incontro. La chiusura sempre più diffusa di luoghi di aggregazione come librerie, centri giovanili, cinema, biblioteche, teatri, ne sono l’emblematica fotografia.

Edove gli individui si allontanano tra loro, dove manca l’incontro e il dialogo vitale con l’altro, diventa più difficile gestire le frizioni e cresce la violenza. Questo vale nelle case, come nel film della Cortellesi, ma anche nelle strade.Persino fenomeni come la microcriminalità e le baby gang, espressione del legame tra urbanizzazione, marginalizzazione giovanile e violenza, nascono – almeno in parte – dall’esigenza dei loro componenti di un senso di appartenenza sociale e identità collettiva non garantita dal contesto sociale e istituzionale.

Ma gli uomini e le donne che popolano le città, più che un massiccio dispiegamento di forze di sicurezza, desiderano soprattutto spazi ordinari – fisici e umani – di vicinanza, serenità,in cui esercitare la dialettica della convivenza e del confronto.

Per prevenire la violenza sociale e trovare soluzioni comuni e integrate in città con criticità dalle dinamiche complesse e delicate(dall’invecchiamento della popolazione al difficile accesso ai servizi, dai fenomeni migratori alle problematiche legate all’approvvigionamento e alla gestione delle risorse), occorrerebbe sviluppare e condividere una più ampia visione di sviluppo futuro.

Serve uno sguardo lungo, paziente, capace di ascoltare e analizzare con attenzione le domande, le attese, le conflittualità delle comunità urbane, per poi favorirne l’inclusione, la sostenibilità e la coesione sociale. Elementi essenziali per supportare processi di appartenenza, solidarietà e pacificazione.

E’ un compito che spetta certo agli esperti: ricercatori, economisti, urbanisti, decisori politici. Ma anche ad ognuno, che potrebbe contribuire a costruire una dimensione collettiva del vivere proprio nell’aprirsi a maggiore partecipazione attiva, empatia e solidarietà con gli altri: è in gioco la vivibilità personale e il domani comune nelle nostre città.