di Giuliana Gugliotti
UN PO’ DI STORIA – Segui i soldi e troverai la mafia, diceva Giovanni Falcone. Segui i soldi, e troverai nomi e affari della criminalità organizzata, perché, si sa, quando le mafie mettono le mani su qualcosa è sempre per ricavarne lauti (e sporchi) profitti. Prima i soldi erano nelle discariche. Terre di camorra che bastava poco a trasformare in siti abusivi di stoccaggio dei rifiuti, di qualunque genere fossero, da ricoprire poi con ampie gettate di cemento, edificando sopra la munnezza cittadelle altrettanto abusive, altrettanto foriere di guadagno. Così negli ultimi vent’anni la camorra ha avvelenato la terra campana, una immensa piaga suppurante che oggi sta restituendo al mittente (ma anche agli ignari, sfortunati abitanti) tutto quello che ha assorbito per vent’anni.
E questa è la storia. Oggi, invece, il giro di soldi è cambiato. Gli affari non si fanno più con le discariche. Si fanno con i trasporti. Già, perché spostare la munnezza costa, e il prezzo, che noi cittadini napoletani paghiamo profumatamente con la tassa sui rifiuti più alta d’Italia, a farlo è (molto spesso) la camorra. Puglia, Veneto, Piemonte, Lombardia, Toscana, Sicilia; più recentemente Europa (l’Olanda, perché la Norvegia i nostri sacchetti non li volle, aveva paura a bruciarli): qui Napoli manda i suoi rifiuti. Come mandare a sgravare altrove una gallina dalle uova d’oro. E a portarceli sono ditte molto spesso colluse o “in odore” di associazione criminale.
Come l’azienda di Vincenzo D’Angelo, imprenditore trapanese, condannato a 7 anni perché, invece di portarli in Puglia, i rifiuti campani, li mandava (non tutti, una parte) direttamente in Giappone e in Corea, nei cementifici che avevano bisogno di combustibile. Guadagnandoci 250 volte tanto. Cosa che non gli ha impedito di praticare prezzi da strozzino per il trasporto (160 euro a tonnellata secondo il contratto stipulato con la Sapna, società della Provincia di Napoli che si occupa dello smaltimento rifiuti, e costato 60 mln di euro in 5 mesi). Poi ci fu il caso (nel 2011) di Stefano Gavioli, patron della veneta Enerambiente, che ricomparve misteriosamente (dopo aver ricevuto una misura preventiva anti-mafia e un avviso di garanzia) nel cda della Rosignano Energia Ambiente, società livornese incaricata all’epoca di smaltire rifiuti campani. Per l’Olanda invece il Comune (subentrato insieme alla Provincia nel ciclo rifiuti in previsione del prossimo passaggio di consegne che vedrà proprio i comuni prenderne in mano la gestione) ha fatto il possibile per “evitare zone grigie”, come dichiarò Tommaso Sodano alla vigilia della partenza delle prime navi verso l’Olanda. E si scoprì che senza “intermediari” mandare la munnezza fuori dai confini nazionali costava addirittura meno: solo 103 euro a tonnellata contro i 150/200 richiesti in Italia.
Ma non tutti i rifiuti campani vengono spediti in Olanda. Attualmente il Comune di Napoli invia nella terra dei tulipani 250mila tonnellate di rifiuti all’anno, a fronte delle circa 400mila tonnellate prodotte annualmente in città. Che fine fa il resto dei rifiuti di Napoli e Provincia? Continua a viaggiare verso la Puglia, la Toscana, la Lombardia, il Veneto. Continua a rimpinguare le tasche di chi la porta laggiù, e continua a svuotare quelle dei cittadini. Perché a pagare questi costosi spostamenti (anche quelli delle navi che salpano per l’Olanda) siamo noi, con la Tarsu, futura (e omnicomprensiva) Tares. Che, come dicevamo prima, tocca in Campania livelli stratosferici.
E se il risparmio “arancione” (in tutti i sensi) è il benvenuto, 25mln di euro all’anno, anche se a fronte dei precedenti 43 mln, sembrano davvero troppi per fare questo bel regalo all’Olanda (soprattutto considerando che la Sapna è rimasta senza un euro, le navi per l’Olanda stentano a salpare e il Comune non ha ancora iniziato a riscuotere la Tares). Perché, questo si sa, i rifiuti, per chi sa come trattarli, sono una miniera d’oro. Ed è qui che casca l’asino. Perché noi, i rifiuti, davvero non sappiamo come trattarli.
IL CICLO VIRTUOSO DEI RIFIUTI – Gli anni di emergenza, i commissari straordinari, le istituzioni nate ad hoc per gestire le crisi. I rifiuti sempre troppi, con dentro mani criminali. Tutto ha contribuito a una malagestione di un ciclo che invece potrebbe essere “virtuoso”. Industriale. Addirittura economicamente produttivo. Se l’inceneritore di Acerra marciasse a pieno regime; ma ci sono problemi tecnici e la manutenzione da fare; se il Comune si dotasse di un impianto di compostaggio per l’umido, ma attualmente non ce l’ha, e il nostro umido se lo prendono Puglia, Calabria, Veneto. Se la raccolta differenziata funzionasse; ma l’Asia non ha mezzi sufficienti. Se. Ma. Troppi “se” dietro il ciclo dei rifiuti, troppi interrogativi senza risposta, troppi “ma” che fanno presto a tradursi in “mai”. Risolveremo mai il problema dei rifiuti? Meglio non tentare di rispondere.
Lo scorso 29 settembre il Comune ha aperto il bando per la costruzione di quello che dovrebbe essere il primo impianto di compostaggio di proprietà del Comune di Napoli a Scampia. Con relative polemiche. Ma il problema resta, soprattutto per quanto riguarda la raccolta differenziata.
IL BLUFF DELLA DIFFERENZIATA – “Ci avevano promesso il 70%, ma ci hanno ingannato. La differenziata è attualmente ferma al 25%, e la colpa non è (solo) dei cittadini”. È la denuncia dei lavoratori Asìa iscritti alla Cgil, che nel luglio 2012 firmò, insieme agli altri sindacati e d’accordo con il Comune di Napoli, un protocollo di intesa con l’Asìa per trasformare l’azienda in una vera e propria industria, destinando una parte dei fondi per i lavori straordinari all’impiantistica, alla selezione di un management adeguato, all’incremento del personale addetto allo spazzamento stradale e al prelevamento dei rifiuti. Ma da luglio 2012 questa trasformazione ancora non si è vista.
Il problema è che l’Asìa spende ogni anno milioni e milioni di euro per mandare la munnezza in giro per il mondo. E così i soldi per l’impiantistica e gli strumenti non ci sono. Da inizio 2013 sono già stati spesi 8 mln di euro (che sono soldi dei contribuenti) per mandare avanti la macchina inceppata dei rifiuti. 8 mln di euro che se ne sono andati per i viaggi dei rifiuti fuori regione (ogni camion costa 3200 euro circa per andata e ritorno), e per lo smaltimento dei rifiuti differenziati presso strutture private, che a volte diventa un vero e proprio salasso per l’azienda (e quindi per le tasche dei cittadini): perché, quando arriva negli impianti privati di selezione, molto spesso la munnezza è contaminata. E la frazione estranea, se supera una certa quota, viene fatta pagare cara all’Asìa. Quindi, se per esempio nella carta c’è più del 30% di un altro rifiuto, plastica, vetro o indifferenziato, l’azienda è costretta a pagare per l’errore. Un errore che dipende sì dai cittadini, ma anche e soprattutto da carenze strutturali dell’Asìa stessa: mezzi insufficienti, dipendenti che diminuiscono anno dopo anno e condizioni di lavoro insostenibili per gli operatori ecologici.
IL DRAMMA DEI DIPENDENTI ASIA – “Da quando l’azienda è stata fondata – denunciano i dipendenti – non è stato mai fatto un turn over”. Ovvero: i dipendenti andati in pensione o deceduti non sono mai stati rimpiazzati. “L’Asìa non ha mai assunto nessuno, tranne i lavoratori che già operavano nel settore, in seguito a una politica di internalizzazione”. Ma, a conti fatti, dei circa 3000 addetti (tra dipendenti diretti, Lsu e altri lavoratori di società private) su cui l’azienda poteva contare all’epoca della nascita, nel 2000, ne sono rimasti poco meno di 2mila 500. Solo che adesso sono tutti dipendenti diretti di Asìa. Ma questo non cambia il fatto che gli addetti alla pulizia urbana sono troppo pochi.
“Prima eravamo 1200, adesso siamo rimasti in 500 a lavorare in strada, tra addetti allo spazzamento e al ritiro rifiuti”. E le condizioni di lavoro non sono certo delle migliori. Mezzi che non si fermano un attimo, perché non bastano, e quindi non vengono mai lavati, con le conseguenze che tutti possiamo immaginare; così come non sono lavati i bidoni, che diventano presto l’alloggio ideale di bigattini e ratti. E poi turni di lavoro sfiancanti, durante i quali spesso non si riesce a ritirare la spazzatura in tutte le zone di competenza, anche perché i camion quasi sempre sono pieni fino a scoppiare.
“Oggi abbiamo iniziato a lavorare con un’ora di ritardo: non c’era nemmeno un camion disponibile” raccontano due operatori, “abbiamo dovuto aspettare il rientro dei colleghi”. E probabilmente, anche oggi loro, come tutti gli altri addetti, non riusciranno a finire il giro di raccolta. Così la munnezza si accumula per le strade, sotto i palazzi, dove adesso secondo l’ordinanza comunale devono alloggiare i bidoni, nei cortili privati dove di pomeriggio giocano i bambini. Finché la gente stufa non la porta in strada, o la brucia. Come è accaduto qualche settimana fa a via Ghisleri, Scampia, o come hanno fatto gli abitanti del parco Vesuvio a Ponticelli, che si sono appropriati di una parte del suolo comunale per accantonare i rifiuti: una vera e propria discarica in miniatura, con cumuli di sacchetti che sommergono i bidoncini della differenziata, che ormai dagli altri rifiuti non hanno niente di diverso.
EMERGENZA MAI FINITA – A farne le spese sono sempre i quartieri popolari, quelli della periferia, Scampia e Ponticelli su tutti. Qui l’emergenza rifiuti non è mai finita. A cambiare è stata solo la foggia dei cassonetti. Prima grossi mostri in lamiera, oggi piccoli bidoncini in plastica dura, uno per ogni genere di rifiuto: organico, indifferenziato, carta, plastica e vetro. Una divisione che però è solo nominale, perché anche i bidoni sono troppo pochi, fanno presto a riempirsi, e dentro ci finisce indiscriminatamente qualunque tipo di rifiuto. Tutto mischiato, anche i sacchetti riempiti correttamente.
Le nostre telecamere sono andate a documentare la situazione a Ponticelli, tra il rione Incis e il parco Azzurra, zone sommerse dai rifiuti, unite da una maxi-discarica abusiva che da anni prolifera sotto uno dei ponti di via Argine.
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