Corrispondenze dell’esule
Rubrica di Annamaria Torroncelli
Una nuova rubrica di Annamaria Torroncelli, napoletana verace e romana d’adozione. Si definisce esule in terra straniera da quando, molti anni, fa una sua carissima amica le regalò un libro di fattarielli napoletani per il suo compleanno e nella dedica scrisse “Alla mia carissima Annamaria, esule in terra straniera.”.
S’anna fà e’ butteglie e’ pummarola.
Questa parole sancivano la fine dell’estate e delle vacanze estive, nell’ultima settimana di agosto e la prima di settembre,. Era il tempo del ritorno al lavoro per papà, dei compiti delle vacanze per me, delle attività domestiche per mamma.
In casa difficilmente si ricorreva ad espressioni dialettali, si parlava rigorosamente italiano. Ma per certi argomenti la lingua ufficiale era, e doveva essere, il napoletano. E’ butteglie e’ pummarola raccontavano il profumo della conserva, il colore rosso imprigionato nelle bottiglie scure. La poesia del lavoro di un’intera famiglia.
Ho vissuto questa tradizione familiare fin da bambina ricoprendo, nel corso degli anni e nella complessa trafila lavorativa, ruoli diversi. Più diventavo grande e più mi veniva assegnato un incarico di maggiore responsabilità. La conserva di pomodoro fatta in casa dava qualche problema in più. Non disponendo di una casa di campagna o almeno di un piccolo giardino, la confezione delle bottiglie diventava difficoltosa. Non c’era sufficiente spazio per accogliere le caldaie necessarie per la bollitura sterilizzante dei vetri, ma la perizia organizzativa di mamma sopperiva ad ogni difficoltà.
Cassette di pomodori, rigorosamente di qualità San Marzano, i più polposi e rossi, occupavano ogni angolo della cucina e della terrazza. Un intenso profumo di basilico inondava la casa ed entrava nella pelle. Ma nella pelle entrava anche il caldo. Impietoso, umido, implacabile, spietato. Calore di fine estate, di fornelli e pentole arroventate.
Si iniziava con il lavaggio dei pomodori, a dire il vero l’operazione più piacevole per il fresco contatto con l’acqua, e si continuava con la separazione dei pezzi più grossi da quelli più piccoli. I primi erano destinati alla lavorazione dei pelati, i secondi per la conserva. I pelati si preparavano con rapidità, ma avevano bisogno di mani esperte per evitare che i pomodori crudi, tuffati troppo a lungo nell’acqua bollente, si disfacessero e perdessero consistenza. Le bucce “sfilate” dalla polpa erano, poi, passate e la conserva che se ne ricava, si univa ai pelati che erano conservati in barattoli dalla chiusura ermetica. La conserva prevedeva una lavorazione semplice, ma piuttosto lunga. I pomodori, tagliati sommariamente a pezzi, e bolliti per alcuni minuti, si riducevano in conserva con il passapomodori ed, infine, imbottigliati.
Una distesa di bottiglie, di dimensioni identiche e perfettamente pulite, si allineava sul tavolo della cucina: contenevano nel fondo una bella foglia di basilico e un’altra sarebbe stata inserita al termine del riempimento con la conserva. Per intrappolare il pomodoro tra mura di profumo. Mura che si sarebbero sgretolate al momento dell’apertura della bottiglia, diffondendo nell’aria quell’aroma inconfondibile. Di pasta e di ragù. Di festa e di allegria.
Ma la vera specialità di mia madre erano i pomodori a filetti. Faticosissimi. Erano utilizzati per i sughi sciuè sciuè, semplici, semplici, nei quali era fondamentale la presenza della pellecchia, la buccia del pomodoro, per dare al condimento, in pieno inverno, il profumo e la fragranza dell’estate. Il pomodoro, tagliato a spicchi, era imbottigliato, a crudo, con pazienza. I filetti erano inseriti uno alla volta nelle bottiglie sapientemente battute su un morbido piano, per consentire un riempimento ottimale del contenitore. Alla fine, l’immancabile odorosa foglia di basilico suggellava l’opera.
Nel mio cursus honorum ricordo di aver ricoperto ogni incarico previsto nelle lavorazioni. Tranne uno, il più delicato e per questo, prerogativa esclusiva di mia mamma. La chiusura della bottiglie.
Prima dell’avvento della sigillatrice per tappi metallici, quelli della birra, per intenderci, l’operazione si eseguiva con i tappi di sughero. Complessa, richiedeva notevole destrezza manuale. Il tappo, scelto di ottima qualità, elastico e resistente, era inumidito con un po’ d’olio per favorirne l’entrata nel collo della bottiglia. Il vetro, bollente per la conserva in essa contenuta, rischiava lo scoppio se sollecitata troppo dalla battitura sul tappo. Fondamentale, quindi, evitare ogni trauma superfluo.
Poi, la legatura del tappo con lo spago. Ricordo con ammirazione i gesti svelti e destri di mamma che con poche, sapienti mosse ingabbiava il tappo al collo della bottiglia. Comprendevo che tutti i passaggi dell’operazione avevano una ragione, guardavo con attenzione, ammirata, mossa inconsapevolmente dal desiderio di impadronirmi di quel sapere antico. Che perpetuava la tradizione della nostra famiglia, della nostra terra d’origine.
Le bottiglie erano, alla fine, “vestite” ad una ad una con “abiti” messi da parte durante l’anno esclusivamente per la circostanza: pezze di lana, vecchi canovacci, calzini in disuso. In questo modo, durante la bollitura sterilizzante, non si rischiavano pericolose collisioni e rovinose rotture. A bollitura terminata, i pentoloni si lasciavano raffreddare, le bottiglie si tiravano fuori una alla volta e si mettevano a dormire, così mi dicevano, sotto una doppia coltre di coperte per consentire un raffreddamento totale, ma lento. Che ne salvaguardasse la futura buona conservazione.
Giornate faticose, interminabili e vissute quasi come uno scotto da pagare per le lunghe vacanze trascorse. Ma la fantasia e l’abilità di trasformare ogni attività in un piacevole divertimento non mi mancavano. E così giocavo, giocavo tanto. Immaginando mercati, ristoranti, negozi e aguzzando il mio ingegno teatrale. In una scenografia di verde e di rosso.