Una nuova rubrica di Annamaria Torroncelli, napoletana verace e romana d’adozione. Si definisce esule in terra straniera da quando, molti anni, fa una sua carissima amica le regalò un libro di fattarielli napoletani per il suo compleanno e nella dedica scrisse “Alla mia carissima Annamaria, esule in terra straniera.”.
Una sera d’autunno in terra etrusca, anni fa. Il buio avvolgeva la campagna profumata da un mare in burrasca, il vento sferzava la pelle, le luci della piccola stazione ferroviaria illuminavano l’unica banchina e il minuscolo giardinetto. L’aria frizzante dava un che di allegro all’atmosfera uggiosa, avevo l’animo scuro.
Il treno sbucò dal cielo nero, all’improvviso. I fari della locomotiva penetravano il buio, impietosamente, lo stridore dei freni, mescolato al rintocco metallico della campanella del passaggio a livello, feriva il silenzio della sera. Pochi viaggiatori sparsi qua e là, nelle vetture, non mi fu difficile trovare un posto tranquillo, lontano dal rischio di essere coinvolta in chiacchiere fastidiose.
Me ne volevo stare in santa pace, e pensare alla giornata trascorsa e a quella che stava per arrivare. Un posto a finestrino, lo sguardo incollato al vetro, e via a perdermi nei miei pensieri. L’indomani avrei iniziato un nuovo lavoro: un’attività di prestigio, niente più viaggi, un buono stipendio. Ero soddisfatta sì, ma felice, proprio no. Su quelle rotaie si concludeva il sogno vagheggiato dall’infanzia, il mio progetto di vita, l’insegnamento. Lasciavo i miei ragazzi, quell’allegria che sa di gesso e di registri, di banchi sgangherati e compiti in classe. Un dolore grande: occhi umidi, e un pugno nello stomaco.
Due anni di scuola e di viaggi, due anni di nuove amicizie, due brevi amori. Una morsa insopportabile. Avevo affrontato l’attività frenetica e stancante dell’insegnamento fuori sede, con entusiasmo ed allegria, le carte vincenti, ora come allora, in ogni mia attività. I ragazzi mi avevano amata e io li aveva ricambiati con un amore sincero e profondo.
Come Daniela. Come non ricordarla?
Daniela era una ragazza sanguigna, di una bellezza piena, contadina. A scuola non era brillante, studiare non le piaceva. E non ne faceva mistero. Noi insegnanti non la vedevamo di buon’occhio, incarnava il prototipo dell’alunno intelligente che non si impegna, quello che indispettisce, e che getta al vento un bene prezioso. Aveva trascinato l’anno molto malamente: pochissimo impegno, bassissimo rendimento. Che fare? Quindici anni sono un problema, si è tutto e niente, indifesi e aggressivi. Questo dicono i manuali di psicologia, ma formulare la diagnosi è elementare al confronto di quanto arduo sia ipotizzare una prognosi, trovando il modo di uscire dal garbuglio adolescenziale.
Anch’io ero giovanissima, per certi versi non ancora del tutto uscita da quella tempesta della vita che è l’adolescenza. Tutto avrei voluto fare fuori che dare dritte educative. Da vecchia barbogia.
Cercavo dentro di me gli strumenti per riportare sulla strada della ragionevolezza quella ragazzina dal fare sfrontato. Al momento degli scrutini fui decisa: Daniela si sarebbe portata a settembre due materie, storia e geografia. Non latino, non italiano. Storia e geografia: come a dire, ti costringo a studiare discipline che chiedono solo un minimo di applicazione, non certo capacità intellettive particolari. Volevo che considerasse la decisione del consiglio di classe una semplice punizione per la sua infingardaggine.
L’estate era volata via. Daniela l’aveva vissuta con entusiasmo ed allegria, nonostante la famiglia, a sottolineare il giudizio negativo della scuola e per farle saggiare la durezza dell’impegno lavorativo, le avesse trovato un’occupazione presso la farmacia del paese. Lo studio non ricopriva un ruolo di rilievo nelle sue giornate di irrequieta adolescente, per il mare, gli amici, la discoteca, invece, era sempre disponibile, con il massimo dell’impegno.
La sua vita scorreva serena. La famiglia, sì, le andava un po’ stretta, ma non si poteva lamentare. Altre sue compagne ed amiche dovevano fare i conti con padri padroni, violenti e sopraffattori. Matilde, una sua compagna di scuola, subiva violenze non solo dal padre, ma anche da suo fratello maggiore. Una volta, lo ricordava bene, Matilde fu ricoverata in ospedale per una fortissima emorragia: gli scarponi di campagna del fratello si erano scagliati sul suo corpo mingherlino e l’avevano ridotta ad un ammasso di lividi. E tutto solo per un fidanzatino non gradito ai maschi di casa.
Per questo, Daniela non si lamentava: dai suoi genitori solo rimbrotti per i rientri serali sempre oltre l’orario consentito, solo severe sgridate per i mancati risultati a scuola. Non era poi tanto male.
Così, tra il mare e le serate in balera, il lavoro in farmacia e qualche distratta ora di studio, l’estate se ne era andata. Gli esami l’aspettavano, non aveva studiato molto. L’avevo capito in maniera inequivocabile quando, il giorno degli esami, le avevo chiesto di parlare delle guerre puniche, un argomento facile facile. Qualche balbettio, qualche racconto smozzicato e, poi, il colpo da teatro. Cartagine, la storica nemica di Roma, la patria della Didone virgiliana, per Daniela era diventata un’isola.
Nella mia, seppur breve carriera, ne avevo sentite tante, che Saffo era un uomo, che l’impero romano era caduto dopo la scoperta dell’America, ma questa era proprio grossa. Cartagine, un’isola.
Superato, però, l’istintivo moto di rabbia trattenni a stento un sorriso. Quella ragazzina, nonostante tutto, mi metteva allegria, mi era simpatica. La promozione riuscì a strapparla, per grazia ricevuta.
L’anno dopo ero stata assegnata al triennio superiore, non fui più l’insegnante di lettere di Daniela. Ci incontravamo nei corridoi, al cambio dell’ora. Un saluto, un sorriso, nulla di più. Arrivò dicembre, i giorni rotolarono in un baleno verso le festività natalizie. L’ultimo giorno di scuola profumava dei dolci della tradizione e dell’allegria che precede la festa, fatta di attese e aspettative. L’atmosfera era rilassata, all’attività didattica si dava poco spazio indugiando piacevolmente in amene chiacchiere. Mi spiaceva non trattenermi, ma il treno mi aspettava.
Frastornata tra un augurio e l’altro, ancora masticando qualche ghiottoneria natalizia, mi avviai per le scale cercando di guadagnare rapida, l’uscita.
Fu lì che, alle sue spalle, sentii una voce: “Professore’, tanti auguri e buon Natale. Quest’anno ho messo la testa a posto, me so’ fatta pure i ricci.” Daniela era lì, accanto alla triste e silenziosa Matilde. I suoi capelli erano diventati ricci, sbarazzini, nel tentativo inconscio, forse, di trasferire ogni irrequietezza nella capigliatura. I capelli sì, erano cambiati, ma il suo sorriso no. Quello era rimasto identico, sfrontato, provocatorio.
Ero convinta che Daniela non nutrisse nei miei confronti una grande simpatia; l’avevo punita severamente, non condividevo il suo comportamento scanzonato, come mi poteva amare? Ma i ragazzi sono come gli animali, sentono a fiuto chi gli vuole bene, davvero. E così, inaspettatamente, Daniela mi buttò le braccia al collo, confessandomi in un sorriso e in un abbraccio che avevo fatto bene a rimandarla a settembre, la colpa era solo sua. Non aveva mai voluto studiare. Ma ora aveva capito la lezione, e aveva messo la testa a posto, non si sarebbe più fatta bocciare. E aveva concluso il suo augurio per il Natale con un “Professore’, te voglio bene.” Annegato in un sorriso traboccante di vita.
Per me, quell’anno, il più bel regalo di Natale.
Ma con quel sorriso Daniela se ne volò via, tre giorni dopo.
Una balera di un pomeriggio di festa, il solito ritardo sull’orario di rientro imposto dai genitori, quella maledetta lastra di ghiaccio dietro la curva, e il suo volto ancora di bambina, i suoi ricci bruni si sciolsero nel buio straziante della morte.
Eppure Daniela sarebbe rimasta per sempre lì, su quelle scale. Sorridente, con la testa finalmente a posto e i ricci belli.
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