Corrispondenze dell’esule
Rubrica di Annamaria Torroncelli
Una Corrispondenza speciale per RoadtvItalia in occasione della pubblicazione dell’ultimo romanzo di Maurizio de Giovanni, Vipera. Un omaggio all’autore e al suo pubblico.
S’adda sciogliere a’ Gloria
La Pasqua, a casa mia, ha sempre avuto il profumo caldo di pastiera e casatiello.
Un aroma celestiale che si infiltrava sotto le porte e rotolava nelle scale fino ad inondare le case dei vicini. Una fragranza che amplificava la difficoltà di rispettare il divieto di gustare queste prelibatezze fino alla domenica di Pasqua. Perché anche per il solo assaggio, mi dicevano, s’adda sciogliere ‘a Gloria. Altro che Gloria, io la vedevo come un’autentica tortura. E così mettevo in atto raffinate tecniche di sottrazione di qualche boccone prima della fatidica scadenza.
L’espressione, in realtà, si riferiva alla conclusione dei riti del triduo pasquale, i giorni di lutto stretto per la Chiesa. Conclusione che si concretizzava con l’accensione del Cero Pasquale, il bianco splendente dei paramenti e il ritrovato suono delle campane. Una Resurrezione che si celebrava anche nelle case, con il ritorno dei colori della tavola e la fine dell’astinenza alimentare. Tornavano la carne e i dolci. Il buio della cucina di magro lasciava spazio alla luce della cucina della festa, grassa e succulenta.
Finalmente.
Ma andiamo per ordine, l’universo pasquale partenopeo, quello alimentare in particolar modo, è questione seria che merita la giusta attenzione.
A Napoli ci sono famiglie di pastiera e famiglie di casatiello. Di dolce e di rustico, di intimità e di vita all’aria aperta. Mi spiego meglio. Ci sono famiglie che privilegiano una preparazione a discapito dell’altra, la mia, fortunatamente per me, era per le pari opportunità. E godeva di entrambe. Pertanto, con autentica fierezza, posso affermare di essere napoletana di pastiera, per parte di madre, e di casatiello, per parte di padre. I miei 46 cromosomi, sono divisi equamente in 23 di pastiera e 23 di casatiello.
Mia madre è nata il giorno di Pasqua, con il sangue profumato di acqua di fiori. E vi racconto perché. Nonostante la data del parto fosse prossima e il pancione non le consentisse grande libertà di movimento, mia nonna non aveva rinunciato a preparare i piatti tipici della Pasqua, primo fra tutti la sua adorata pastiera. Ma la sua creatura, mia madre, aveva fretta di nascere, e lanciava segnali inequivocabili su quali fossero le sue reali intenzioni. Compreso di non avere ampi margini di manovra, con un colpo di mano, non rispettò il vincolo della Gloria e decise di mangiare una bella fetta di pastiera, bruciando sul tempo il travaglio che avanzava. Una mossa impensabile, una colpa grave per lei di strettissima osservanza cattolica. Ma la voce del cuore le concesse l’assoluzione. Il rito laico della pastiera era da considerare sacro, e da rispettare al pari di quello religioso. Come poteva mancare a quel rito, proprio lei, che quella delizia aveva preparata? Un tempo, le puerpere erano mantenute a digiuno o al massimo alimentate con brodi di gallina, e mai e poi mai le sarebbe stato concesso il permesso di mangiare, dopo il parto, la pastiera. E così, senza recriminazioni e pentimenti, si gustò una fetta della sua pastiera che ho motivo di credere sia stato l’ultimo alimento assimilato da mia madre attraverso il cordone ombelicale, prima di vedere la luce. E così da quei lontani giorni di Pasqua, il cromosoma della pastiera, attraverso il sangue materno, ha continuato il suo viaggio ed è approdato a me. Ed io ancora lo custodisco come un bene prezioso, un vero gioiello di famiglia.
Il casatiello, invece, la torta salata di una pesantezza proverbiale (a Napoli si dice: “I’ che casatiello!” parlando di una persona pedante, verbosa e noiosa), era la tradizione forte nella famiglia di mio padre. Papà lo adorava. Gli ricordava i profumi delle scampagnate giovanili del Lunedì dell’Angelo nei giardini della Reggia di Caserta o, quando il tempo e il mare lo permettevano, il piacere di ‘na varchiata con gli amici, un giro in barca senza meta, in balia delle onde e di una fantasia pigra. Libertà e aria aperta accompagnate da ‘na bella fellata, l’affettato misto di salami, soppressata e capocollo, con ricotta salata , caciocavallo e uova sode.
Mia madre, cuoca sopraffina e delizia degli ospiti che numerosi apprezzavano i suoi manicaretti, accettava un’unica ingerenza in cucina, quella di mio padre e solo quando si trattava del casatiello. Per l’esattezza a proposito della modalità di sminuzzamento degli ingredienti dell’impasto. Il loro “calibro” era determinante per creare il giusto amalgama, e consentire al palato di gustare il bouquet finale di sapori, indeterminato, unico. Che dal palato sale e si diffonde, miracolosamente, nelle pieghe dei sensi.
Pastiera e casatiello vivevano in mondi separati, dolce l’uno, salato l’altro, cucinati in giorni rigorosamente diversi. Prima la pastiera, di solito tra Giovedì e Venerdì Santo. Il dolce aveva bisogno di decantazione perché gli ingredienti fossero del tutto amalgamati fra loro ed esaltassero al meglio il ripieno. Poi, il Sabato Santo, il casatiello, che, proprio perché fatto a base di pasta di pane e doveva conservare fragranza e morbidezza, era preparato più ridosso della festa.
Ma questi due mondi distinti avevano un importante punto di contatto: i riti scaramantici.
La buona riuscita dei piatti dipendeva non solo dalla bravura della cuoca e dalla sapiente miscela degli ingredienti, ma anche da una serie di accorgimenti che con la cucina poco o nulla avevano a che fare. Per questo, la lievitazione della pasta si effettuava, ogni anno, nello stesso luogo della casa, nello stesso contenitore e con la stessa coperta per la sua messa a riposo. E infine, per la cottura, ci si affidava sempre allo stesso ruoto, come si chiama a Napoli la caratteristica teglia bassa da forno.
Un’alchimia di gesti e situazioni perché ‘a pasta si piglia collera, impazzisce come la nordica maionese, se non la si ama e la si protegge come un cucciolo indifeso. Già, pigliarsi collera, dispiacersi di non essere trattato con le debite attenzioni, un’espressione dolcemente poetica. Quante volte ce lo hanno detto, Nun me fa piglià collera, e quante volte lo abbiamo detto. E chissà se questa muta preghiera l’avrà sentita magicamente sussurrare mia madre dall’impasto che modellava.
Le sue mani accarezzavano quell’impasto, ne saggiavano la consistenza e l’elasticità, con fedeltà, non abbandonandolo mai in altre mani. Mai un tradimento, mai un calo di tensione emotiva. A me, che spesso l’affiancavo nella preparazione, era dato solo di lavorare ai parziali, il tocco finale non poteva che essere suo. Di mamma.
Per un giorno intero la casa era inondata dell’inebriante fragranza di cannella e acqua di millefiori. Per un giorno intero la cucina era invasa da tegami e contenitori che accoglievano separatamente il grano cotto nel latte aromatizzato con la stecca di vaniglia, la ricotta, lo zabaione e le chiare d’uovo montate a neve, i canditi, scorzetta d’arancio e cedro, tagliati a dadini. Fino alla fase finale, quando, con mossa amorevolissima, tutti gli ingredienti precipitavano, nella sequenza dettata dal rigoroso protocollo della tradizione culinaria, nell’enorme zuppiera di ceramica bianca luogo deputato all’incontro carnale di quel circo di sapori.
A me, in quella zuppiera, era dato solo mettere la polvere di cannella e l’acqua di millefiori secondo dosi identificate di volta in volta dall’occhio sapiente della cuoca, autentico nocchiero nelle acque perigliose della cucina.
E sempre con la cannella, potevo spolverizzare il morbido amalgama fatto scivolare piano piano nella fodera di pasta frolla prima che fosse imprigionato nell’intreccio di nastri realizzati con la medesima pasta. Prima che il divino prodotto fosse ingoiato dal forno, in un percorso costeggiato da effluvi paradisiaci e tentazioni infernali che si concludeva intorno alla tavola imbandita per la festa quando la benedizione del capofamiglia, con palme e acqua benedetta, scioglieva a’ Gloria. Finalmente.
Quando pastiera e casatiello potevano svolgere la loro missione, fare la felicità del palato. Finalmente.