Corrispondenze dell’esule – Un cuore d’azzurro vestito

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Corrispondenze dell’esule

Rubrica di Annamaria Torroncelli

Una nuova rubrica di Annamaria Torroncelli, napoletana verace e romana d’adozione. Si definisce esule in terra straniera da quando, molti anni, fa una sua carissima amica le regalò un libro di fattarielli napoletani per il suo compleanno e nella dedica scrisse “Alla mia carissima Annamaria, esule in terra straniera.”.



Si sa, alle bambine non si addice praticare o interessarsi di uno sport come il calcio. Almeno una volta si pensava così. Preferibile il nuoto, l’atletica, ancor meglio la danza. Io non facevo eccezione.
In casa nostra, sebbene mio padre fosse un grandissimo appassionato di ciclismo e fin dai tempi di Binda e Guerra, di Coppi e Bartali non ci fosse Giro d’Italia o una Milano-Sanremo che potesse sfuggirgli, il cuore calcistico non poteva battere che per il Napoli. Come tutti i tifosi azzurri lontani dai patrii lidi, mio padre gioiva con discrezione (poche volte, purtroppo!), e soffriva in silenzio (troppe volte, purtroppo!). Vivere in una città come Roma, vivacemente divisa tra due opposte tifoserie non era certo facile. In particolare il derby Roma-Napoli, era già vissuto con grande tensione. Erano finiti i tempi dell’immediato dopoguerra quando ci si poteva godere il match gomito a gomito, romanisti, laziali e partenopei. Gli sfottò pesanti, e anche la scazzottata erano all’ordine del giorno, ma nessuna violenza. Mai. Tutti si sentivano al sicuro, tranquilli. Anche i bambini.
Ed io? Che rapporto avevo con il mondo del pallone?
Sono stati i mondiali del ’70 ad avvicinarmi in maniera adulta al calcio. Quell’entusiasmo febbrile, spontaneo, assolutamente imprevedibile, che si impadronì di tutti noi in quella indimenticabile notte di Italia-Germania 4-3, contagiò anche me. I campioni che ammiravo, ed amavo neanche tanto segretamente, erano Riva e Rivera. Cominciai così, tifando per squadre che non mi appartenevano. Seguivo il campionato, acquisivo pratica nella terminologia, leggevo giornali sportivi, destando la curiosità e la meraviglia del mio professore di storia e filosofia che non si capacitava di come una ragazzina come me, studiosa, equilibrata, seria, potesse seguire le follie del calcio.
Non so se per evitare che continuassi sulla china di un tifo spurio o solo per godere dell’emozione della condivisione calcistica che non aveva potuto vivere con un figlio maschio, mio padre mi portò all’Olimpico a vedere il Napoli giocare contro il Varese. Qui a Roma, in campo neutro perché il Napoli aveva il campo squalificato. In compagnia di amici rigorosamente napoletani e nella curva riservata alla tifoseria partenopea, iniziai il processo di riconoscimento delle mie naturali, direi ovvie, origini calcistiche. Il vivere la partita nella partita, sentire i commenti nella mia lingua. Come non ricordare il rimpianto di una sanguigna tifosa in esilio, appunto, in terra straniera, do’ cusciniell’ in dotazione al San Paolo per rendere più comoda la seduta sui gradoni dello stadio? Indimenticabile.
Insomma, il fuoco era stato ravvivato, bastava solo soffiarci sopra.
E vennero gli anni del delirio, gli anni dell’agognato scudetto, atteso per sessanta anni. Gli anni del Divo Diego, sudamericano di sangue, napoletano per elezione popolare. Rivedo gli occhi umidi di commossa felicità di mio padre, e lo sguardo estasiato di mio zio che solo un anno dopo se ne volò in cielo. Risento i racconti surreali dei colleghi della biblioteca Nazionale di Napoli che dividevano il loro tempo lavorativo tra seriorissime riunioni per le celebrazioni leopardiane e altrettanto impegnative attività organizzative dei festeggiamenti per lo scudetto.
E poi, vennero gli anni del dolore, dell’esilio nelle serie cadette, perfino la serie C. Quando nelle case, nei negozi, sulle scrivanie d’ufficio si teneva una foto, un’immagine del Divo per consentire ai tifosi irriducibili ‘na sciacquata d’uocchie, e ricordare i tiemp’ bell’ e ‘na vota.
Ed io sempre a Roma. A vivere di riflesso una passione che diventava sempre più imperiosa. Mi ricordai, allora, di un episodio lontano nel tempo, significativo nei contenuti.
Una domenica sera, di ritorno da Napoli, ci eravamo fermati a fare rifornimento di benzina al primo grande distributore sull’autostrada. Quel giorno si era giocato il derby Napoli-Roma, e gli azzurri avevano inflitto una secca sconfitta ai giallorossi, un secco 2-0. Il giovane benzinaio che si occupava del nostro rifornimento, diede uno sguardo fugace alla targa (una volta la provenienza delle auto era inesorabilmente evidenziata dalla targa, e Roma, la capitale, aveva il privilegio del nome per intero) e, con uno sguardo di commiserazione, sentenziò all’indirizzo di mio padre: “Triste ritorno, eh?” Un lampo d’orgoglio passò negli occhi di papà e rapida fu la risposta: “ Guaglio’, noi simme chiù napulitane ‘e te!”
Quel “noi”, riferito all’intera famiglia, includeva anche me. La piccola esule. Il mio cuore calcistico non poteva, proprio non poteva, che essere azzurro. Nella buona e nella cattiva sorte.