Il 18 settembre u.s. si è festeggiato nel Carcere Femminile di Pozzuoli il quinto compleanno dalla fondazione della Cooperativa “Lazzarelle”, guidata da Imma Carpiniello e Paola Maisto, che si occupa dal 2010 del recupero delle donne ivi residenti affinché non restino anonime e chiuse nella colpa e/o nel dolore, ma si trasformino nelle artefici del proprio cambiamento.
Grazie all’Associazione Culturale Malitalia e alla riservata presenza dello chef Pietro Parisi, il “cuoco contadino” che con l’aiuto delle detenute ha preparato per gli ospiti un apericena, è stato possibile festeggiare un compleanno importante che conferma il valore del lavoro delle Lazzarelle e apre a riflessioni più ampie sul senso del delitto e della pena, sull’importanza di scegliere da che parte stare, a qualunque costo, perché è facile abituarsi a tutto, soprattutto se quel tutto fa comodo.
L’apericena, servito con cura da alcune detenute, è stato preceduto da una rappresentazione teatrale che ha messo in scena la storia vera di Maria Concetta Cacciola, Cetta, che “è stata suicidata” come dice Silvia de Fanti, l’attrice che ne interpreta il personaggio, perché si è opposta al muro di omertà e violenza impostole dalla sua famiglia e dalla ‘ndrangheta calabrese. Il testo teatrale, O cu nui o cu iddi, di Laura Aprati ed Enrico Fierro con la collaborazione di Angela Corica e Francesco Perrella, è stato accompagnato dalla musica di Paolo Damiani al violoncello e da Enrico Valente che si è occupato dei video e delle registrazioni audio.
Una qualità recitativa intensa, una capacità di creare immedesimazione attraverso la musica, sposata con il testo e con le registrazioni audio che ha fatto sentire ad ogni spettatore di non essere fuori, ma lì, in quella storia, in quella figura femminile forte e debole assieme, coraggiosa e spaventata, innamorata della vita e della morte perché vita e morte avevano per lei lo stesso inizio e la stessa fine.
Una storia, quella di Cetta, che parla di una duplice violenza: la violenza criminale della ‘ndrangheta dalla quale non si può sfuggire, e la violenza familiare di un padre padrone che decide di vita e di morte sulla figlia che gli appartiene come l’aria che respira, in quanto donna, in quanto procreatrice in quanto infedele traditrice. La stessa condizione della madre di Cetta che, però, non riesce, o non sa, anteporre l’amore materno all’obbligo verso il marito e la famigghia. Una storia di malacarne, in cui la scelta tra nui o iddi è la scelta tra la sopravvivenza o la morte certa; in cui iddi sono i nemici da combattere e deridere, mentre nui sono i padroni del tempo e dell’esistenza.
Cetta, voleva vivere, voleva poter rispondere alla domanda “a chi appartieni” dicendo “appartengo a me, a voi, al mondo… non a loro”. Cetta amava la bellezza, voleva essere bella, anche in punto di morte, voleva essere bella e libera, sognava la salvezza e la libertà, sognava la catena dell’amore vero che salva e libera e in quell’abbraccio voleva trascinare con sé i suoi tre figli… una catena morale oltre che umana.
Il suo amore per i figli era una catena più forte.
Cetta ritornò per non abbandonarli… ma erano già abbandonati perché non erano più, e forse non lo erano mai stati, i suoi figli, ma i figli della famigghia… o cu nui o cu iddi.
Una scelta che Cetta pagò con il coraggio della denuncia e con l’acido che le scendeva nelle viscere bruciandola mentre sognava la sua libertà di donna, di madre, di essere umano. Una libertà che non si può negare e che deve trovare nella commozione di chi ascolta coinvolto non l’attimo fuggente di chi osa guardare in faccia il male per un solo momento, ma la determinazione di chi se ne assume la responsabilità e cerca un cambiamento… a partire da sé… a partire dal carcere…
“Bisogna pure che ogni uomo abbia la possibilità di andar da qualcuno! Vengono certi momenti in cui occorre assolutamente andar da qualcuno!”, così si legge in Delitto e castigo di F. Dostoevskij, perché a ciascuna persona deve essere data la possibilità di scegliere e di rialzarsi se ha sbagliato.
Questo anche il pensiero della direttrice del carcere, dott.ssa Stella Scialpi, che vede nella detenzione e nelle attività della Cooperativa Lazzarelle “una forma di riscatto, la scoperta di una nuova visione del mondo, l’acquisizione di competenze professionali spendibili all’esterno”.
Grazie alla formazione delle persone detenute è possibile riuscire a impedire nuovi errori che le riportino in stato di prigionia.
Cristina, una detenuta che ha imparato a lavorare dietro il bancone di un bar dice “conoscere il lavoro la aiuta ad amare la vita e a sentirsi libera anche se è ancora in prigione”.
Nessun carcere è un luogo semplice.
Lì dentro si prova la sensazione incredibile dell’esistenza di due mondi (guardie e detenuti) all’interno di un mondo (il carcere) che, di per sé, è già fuori dal mondo (la vita fuori dal carcere).
Un carcere femminile è anche peggio.
Sensazioni forti all’entrata, pur sapendo di uscire in poche ore.
Essere quasi perquisiti, controllati e ricontrollati e, cosa assurda mi rendo conto, riuscire solo a pensare a quanto mi sarei sentita “nuda” se mi avessero fatto togliere gli orecchini. Sensazioni di donna…
All’uscita, il cuore batteva forte come se potesse accadere che non mi lasciassero andare via. La prima cosa che ho fatto è stata guardare il mare non a quadretti come lo vedevo dall’interno, e respirare aria che nonostante lo smog non avesse quell’odore, probabilmente una reazione di difesa, quasi a mettere il confine tra me e loro.
Sensazioni di libertà…
Scoprire, come dice Laura Aprati dell’Associazione Malitalia, “che le confessioni delle donne sono più importanti delle confische dei beni, perché le donne conoscono <<i segreti>>” e le donne diventano modelli per altre donne, pericolose per i segreti che conoscono se scelgono di non custodirli.
O cu nui o cu iddi… questa volta iddi non sono il male, ma la possibilità di non piangere alla vista di un mare a quadretti.
O cu nui o cu iddi… iddi è una scelta coraggiosa, una scelta per la vita.
di Loredana De Vita