di Luigi Casaretta
Dopo quasi un mese di confronto bellico tra Russia ed Ucraina si è cercato di trarre un primo bilancio, sotto vari aspetti, da quello dell’azione russa strettamente militare in territorio ucraino, a quello delle conseguenze economiche tra i due contendenti e l’Europa con le tanto declamate sanzioni proposte dalla maggior parte del mondo occidentale nei confronti della Federazione russa.
Come prevedibile in uno stato di guerra, dove le controparti espongono dati e numeri favorevoli alla propria parte, se sembra eccessivo supporre la perdita di 7000 effettivi tra i russi (secondo il New York Times) di cui 10 generali, appare davvero difficile confutare le stime rese dallo Stato maggiore ucraino secondo cui, ad oggi, le perdite russe sarebbero di oltre 14.200 uomini, 450 carri armati, 1448 mezzi corazzati, 205 sistemi d’artiglieria, 72 lanciarazzi multipli, 43 sistemi di difesa antiaerea. Stando al bollettino, che specifica che i dati sono in aggiornamento a causa degli intensi combattimenti, le forze russe avrebbero perso anche 93 aerei, 112 elicotteri, 879 autoveicoli corazzati, 3 unità navali, 60 cisterne di carburante e 12 droni. Mancano però le fonti sulle perdite ucraine per cui sembra attendibile il dato ONU sulle sole perdite civili che ammonterebbero a circa 2000 persone uccise dall’inizio del conflitto.
Naturalmente dalla parte russa è difficile apprendere sia le perdite ucraine che le proprie non potendo i media locali parlare apertamente di guerra ma di operazione speciale.
Ma nonostante i dati che potrebbero far presagire una difficoltà militare per i russi, che pare abbia ampliato l’uso di bombardamento indiscriminato e richiesto l’ausilio di nuove truppe da altri presidi nazionali, proprio in ragione della difficoltà sopraggiunta, viene da chiedersi se invece il tutto sia parte del programma di guerra, differente solo di poco rispetto al primario obiettivo di riconoscere l’autonomia delle regioni del Donbass e di vedersi riconosciuta l’annessione della Crimea e magari di una spontanea rinuncia all’indipendenza dell’Ucraina in favore della Federazione russa.
La creazione di corridoi umanitari diretti esclusivamente verso la Russia, l’uscita dal paese verso l’Unione Europea di milioni di profughi ucraini, l’afflusso di civili russi, accompagnati da una rallentata presa delle città ed in particolare di Kiev, la capitale, che risulta ancora accerchiata ma non presa, può far pensare che al di là di una forte resistenza offerta sia dall’esercito che dalla milizia territoriale ucraina, ci sia un tentativo di stabilizzare l’area e russificarla, sia per un eventuale futuro plebiscito, facendo affluire nuovi civili russofili sia per far avanzare la linea di confine di fronte ad un negoziato che finora non pone equamente al tavolo i due contendenti.
Inoltre, la pressione portata dai russi su diversi centri dell’Ucraina, senza entrare nelle città, comprime la possibilità di movimento di rinforzo delle truppe ucraine, creando uno stato di permanente pressione psicologica che rischia di spezzare la capacità di resistenza, e non è da sottovalutare la richiesta russa di mercenari da Haftar in Libia, o dalla Siria e dalla Cecenia che potrebbero aprire ad una pulizia di invisi al nuovo eventuale regime.
La scelta di armare gli ucraini, sicuramente ponderata dall’Occidente e non solo motivata da ragioni umanitarie e di aperta presa di posizione, presagisce una valutazione positiva circa la possibilità di resistenza ucraina e di lunga durata del conflitto, davanti ad una repentina e parallela revisione della dottrina di impiego delle forze armate nei paesi NATO.
E’ pressocché fuorviante però ipotizzare che la guerra possa terminare prima che l’intera struttura logistica militare ucraina non sia stata completamente distrutta dalle forze armate russe, poiché la dirigenza russa, ovvero il presidente Putin, non può ritirarsi se prima non siano stati completati gli obiettivi prefissati, che marginalmente riusciamo a scrutare, e purtroppo con un punto di vista occidentale; così pensare che un sistema di potere pluriventennale, quale quello di Putin, in un paese di quella tradizione, possa far vacillare il suo potere, è alquanto improbabile.
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