Immigrazione, la paura dell’altro al di fuori di noi, un vero loop mentale che trafigge la mia mente già da qualche tempo, e i fatti non mi danno per niente torto a quanto pare.
Il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una razza, dà indubbiamente un senso di sicurezza, ci fa sentire protetti anche perché ci rapportiamo con il conosciuto, un familiare. L’ignoto spaventa, sempre: l’immigrato rappresenta ciò che non è conosciuto, e qui il problema di fondo è che spesso nei fatti non prevale la voglia di approfondire, di conoscere, ma piuttosto di ghettizzare, estraniare, cacciare via ciò che non conosciamo.
La diversità fa paura, ma se si vuole sconfiggere la paura è necessario conoscerla. Già, ma chi sono gli immigrati che ogni giorno sfidano ogni sorta di avversità pur di raggiungere l’Europa? Perchè lo fanno? E poi, una volta giunti alla meta, che vita li aspetta? Come vivono la loro esperienza migratoria? Beh, a queste domande voglio rispondere con una storia, una storia cruda, ingiusta, ma vera.
Parlo di Dosso Fati e la sua piccola Marie, madre e figlia provenienti dalla Costa d’Avorio morte di sete nel deserto tra la Libia e la Tunisia. Due corpi ritrovati nell’arsura di un territorio ostile a causa del caldo rovente, esseri umani che hanno perso la vita per la sete, per il caldo, per la stanchezza di un cammino verso un futuro che non è mai arrivato.
Viaggiare a piedi nel deserto, vagando con il solo lume della speranza acceso di una vita migliore, non è una novità per questi popoli: da mesi, da anni in realtà, centinaia di cittadini degli Stati subsahariani vengono deportati e abbandonati nel deserto, come fossero oggetti da buttare, lasciati in balia di un sole assassino, condannati a morte certa perché le loro vite non contano nulla.
Fati era una ragazza di appena 30 anni, sposata e con un dono che la vita aveva voluto donarle, la piccola Marie per l’appunto, che ora aveva appena 6 anni, cacciati dall’accampamento dove vivevano da un anno e costretti a fuggire verso il confine tra Tunisia e Libia. La morte per questi esseri umani è arrivata a causa di una lenta e dolorosa disidratazione, una fine crudele e tragica. Un ultimo, straziante abbraccio di una madre morente alla sua piccola un attimo prima di morire, entrambe legate da un destino crudele, una morte cruenta: questa la “fotografia” che mostra i 2 corpi uniti, nella vita prima e nella morte poi.
Il loro grido di pietà si è perso nel deserto, mentre in Occidente cosa si fa? Si discute su chi deve fare cosa, chi deve ricevere barconi e chi no, come fosse una battaglia di gioco, oggetti da cambiare e scambiare, delle “figurine da collezione”. Ma che umanità è mai questa???
Eppure la difesa dei diritti umani e lo stesso senso di umanità dovrebbero essere iscritti nel dna dell’Europa! Rifletto, penso. Non dobbiamo assolutamente fermarci alla superficie del tema immigrazione, tema in cui spesso, troppo spesso, tutti rischiamo di scivolare. Fenomeno che oggi, in un mondo globalizzato, non dovrebbe neanche essere discusso ma che purtroppo fa sempre molto parlare di sé.
A questo punto proviamo per un attimo a spingerci più in là, fino a riflettere su cosa significa per ognuno di noi lo straniero, il migrante, l’Africano, l’uomo di colore, il diverso … in sintesi l’Altro. Proviamo a fare lo sforzo di liberare la nostra mente per un attimo dai fatti quotidiani che ci assillano le orecchie e gli occhi, dai pregiudizi, preconcetti e stereotipi: sono convinto che emergerebbero emozioni e sensazioni che sono sì patrimonio specifico di ognuno di noi, ma certamente troveremmo dei punti in comune che ci uniscono!
Già, immigrazione, straniero, diversità: ma diverso da chi? Beh, questo è un vero spunto di riflessione, sarebbe opportuno che ognuno di noi lo approfondisse con la propria coscienza.
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