Tony Laudadio nello spettacolo Fabbrica occupata, un “monodramma iperbolico” che debutta alla Domus Ars a Napoli il 20 gennaio.
Dopo Il buio sulla zattera, interpretato dalle attrici Imma Villa e Silvia Ajelli all’Institut Français di Cultura di Napoli, la “Trilogia degli esclusi” scritta e diretta dal drammaturgo e regista Rosario Diana si compie nel terzo movimento e trova sul palco Tony Laudadio. All’attore e scrittore di origini liguri è affidata la messinscena dello spettacolo Fabbrica occupata, un “monodramma iperbolico in prova (atto unico distopico)” che, fanno sapere gli autori, debutta alla Domus Ars a Napoli il 20 gennaio alle 20.30. Accanto al protagonista anche Francesca Laino (attrice) e Martina Nappi (danzatrice).
Il copione racconta la vicenda immaginaria – ambientata nel 2036 – di un operaio prossimo alla pensione che occupa, in assoluta solitudine, lo stabilimento automatizzato nel quale è rimasto l’unico essere umano al lavoro. Si riassume con tale vicenda l’atto conclusivo della Trilogia, che raccoglie tre viaggi sull’esclusione dalla società e vuole mostrare che a esser messo “fuori dall’umano” non è solo chi subisce l’atto di estromissione, ma pure chi lo compie. L’uno resta “fuori” materialmente; l’altro “solo” moralmente”.
“L’operaio che resiste fino alla fine, come un giapponese – spiega Tony Laudadio – è una vittima del progresso ed è costretto dagli eventi in questa condizione. Che ne riduce il valore. Noi attori abbiamo un privilegio enorme: lavoriamo con condizioni serene perché la creazione artistica è un evento propriamente umano. L’invenzione dell’arte e del teatro è un elemento antico e non robotizzabile in misura tecnologica.
Altro campo è la fruizione dell’arte con mezzi digitali. L’affinità tra me-attore e l’operaio sta nello stato di resistenza: il teatro sembra attraversare una crisi per cui anche la sua utilità nella società di oggi, che ha a che fare con panorami virtuali, sembra diminuire e noi attori sembriamo gli ultimi a resistere in queste cattedrali, un tempo gloriose. In tal senso, metaforicamente, l’operaio-custode di quella antica realtà si avvicina a un attore che tiene vivo lo spazio scenico. Da interprete seguo questa linea e la figura di operaio corrisponde al mio mestiere. E qui, l’interprete, è realistico ma anche meta teatrale”.