Donne: tra pregiudizi discriminazioni e violenze

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Carissimi lettori, adoratissime lettrici, bentornati e bentornate su “Lady in the city”!

E’ stata una settimana intensa, soprattutto dopo aver lanciato il tema della rubrica di oggi; mi avete scritto in tanti ed ho avuto l’occasione di incontrare personalmente amiche ed amici con i quali confrontarmi ed arricchirmi, nel raccogliere le loro preziosissime testimonianze.

Quanti e quali, sono i pregiudizi che una donna subisce, nel corso della propria vita? Sì, vado dritta al punto, perché – ahinoi! – non c’è chi mi abbia dichiarato di non esserne mai stata destinataria. Non c’è una scala di valore, per le discriminazioni ed i pregiudizi; ce n’è – forse – una sull’intensità, con la quale questi atti di violenza (perché tali sono da definire) si perpretano in danno di altre ed altri.

“Perché non ti sposi? Perché non trovi un compagno?” – si sente spesso chiedere la giovane donna decisa ad essere single ed a vivere ugualmente la propria vita appagata e felice. “Ma così non potrai essere madre! L’orologio biologico fa tic-tac!” – fa eco la conoscente incinta, incontrata al supermercato, mentre spinge un carrello strapieno di patatine e caramelle gommose, e si porta la destra al grembo, carezzandolo–

“Il pregiudizio con il quale mi scontro più spesso” – mi racconta Maria Rosaria – “è quello che parte da altre donne, che non comprendono come io non possa avere l’esigenza di diventare mamma. Non ne ho mai avvertita l’urgenza e la necessità e non l’ho mai nascosto” – mi confida – “E poi, altro grande pregiudizio è nel non capire che si può stare bene da soli, essere serene, senza avere necessariamente un compagno accanto”. Maria Rosaria continua – “personalmente, sono per il vivi e lascia vivere: rispetto tantissimo le scelte degli altri e delle altre, anche di chi prova a puntare l’indice ed a farti sentire un alieno, quando alieno non sei”.

DONNE E PREGIUDIZI_VIDEO

Il caso di Maria Rosaria è emblematico, sul tema. Una donna consapevole, autodeterminata, una eccellente professionista che lotta contro quel “society code” non scritto che vorrebbe tutte le donne accasate, con prole al seguito; che ci vuole tutte uguali, senza distinzioni e che punta a farti sentire a metà, se non hai voluto “incasellarti” in un determinato ruolo.

A far eco a Maria Rosaria, c’è L., un’altra donna forte e decisa, che mi racconta come fosse stato frustrante, rispondere a chi l’incalzava – e c’è da sottolineare: altre donne, come sostiene Maria Rosaria! –nell’avere un secondo figlio, laddove le era già stato difficile avere il primo e la cosa fosse a conoscenza di tutti.

E già. Perché il secondo, il terzo, ci vogliono: altrimenti, chi farà da “compagnia” al primo?

I figli, sono diventati uno status symbol: numeri, da sfoggiare e di cui vantarsi, per mostrare agli occhi di parenti e conoscenti la fertilità del proprio grembo. Chi vive serenamente una scelta nata dal cuore, lasciando vivere in pace le altre donne che diversamente la pensano, ha tutto il mio sostegno e rispetto. Per le altre, che infieriscono con malignità, su chi sceglie di essere single e/o di non diventare madre; su chi non può e mai potrà diventarlo e ne soffre, c’è solo da far ricorso alla compassione. L’illuminazione non è cosa da tutte e tutti.

Altro aspetto della vicenda – mi fa notare G. – è che “non si pensa neppure, che una donna abbia un diverso orientamento sessuale. A me è capitato più volte, di rispondere a chi mi voleva ammogliata (con un delizioso maritino e figli al seguito), di rispondere che il mio quadretto era diverso e contemplava una compagna e tanti gatti. Pregiudizi? Nei miei confronti? Quanti ne vuoi!”.

Nonostante i tempi siano cambiati e ci sia maggiore possibilità di informarsi e conoscere le diverse realtà ed identità che esistono al mondo, proprio no. Non ci siamo ancora arrivate ed arrivati, ad evitare giudizi e cattiverie gratuite. Per questo, oltre alla illuminazione, ci vorrebbe una benedizione.

“Non capisco perché non voglia stare con me” – mi confida R. sposato, con figli, non più innamorato della moglie, ma di una donna che ha conosciuto per caso e sta frequentando da tempo – “In realtà credo che lei stia con te, R. E’ questo, il suo modo di stare con te e mi sembra che te l’abbia detto chiaro e tondo!” – rispondo io – “Secondo te, quindi, è normale che io voglia lasciare la mia famiglia per andare a vivere con lei e lei non voglia, pur dicendo di amarmi?” – mi chiede – “Secondo me, se non ami più tua moglie e ti è difficile stare in famiglia, devi andare a vivere da solo, non cercare un’altra famiglia, R. Poi… Se questa donna ti ha manifestato chiaramente l’intenzione di frequentarti solo ed esclusivamente per scopi sessuali, perché ti riesce così difficile, rispettare la sua scelta?” – l’incalzo io – “Perché voi donne non siete come noi uomini” – chiude lui –

Ed è qui che tocchiamo l’apice dei pregiudizi – o, per meglio dire – degli stereotipi di genere possibili. Per citare Emma Marrone, noi donne siamo “Sante, o Puttane”. Non si può nemmeno lontanamente immaginare, ancora, nel 2022, che una donna possa essere libera di esprimere la propria sessualità come meglio crede; bene inteso, non per somigliare agli uomini, ma per essere semplicemente se stesse e rispondere ai propri desideri, alle proprie fantasie e necessità naturali. Chi sceglie di assecondare il proprio istinto e vivere in modo assolutamente conforme alla propria personalità e mentalità, rischia seriamente di veder compromessa la propria immagine e forse quella della sua intera famiglia. Un’assurdità, una violenza, cui occorre scontrarsi con l’educazione, con la conoscenza, con il rispetto e con la fermezza e decisione nell’essere chi sei fino in fondo, senza farsi minimamente intimidire dai messaggi sessisti e dalle chiacchiere di quartiere.Stereotipi che passano anche per il modo di vestirsi e comportarsi di una donna (sì, sì, ancora oggi!): la minigonna che significa chiaro invito ad essere violentata – passatemela, sono pur sempre un’avvocata! – è stata oggetto di discussione in numerosi Tribunali, così come la Cassazione (Suprema Corte, oh!) ha avuto a dire che se indossi i jeans e vieni stuprata, beh, non potevi che “starci” (trattasi di “un indumento che non si può sfilare nemmeno in parte, senza la fattiva collaborazione di chi lo porta”); aggravanti che vengono meno, se la vittima di una violenza sessuale è sotto effetto di droghe od alcool (era una drogata, era ubriaca: se l’è meritata!); attenuanti riconosciute a chi commette un fatto “di minore gravità” anche nel caso di violenze carnali “complete” ai danni delle donne (ringraziando sempre la Cassazione); se sei “troppo mascolina”, poi, non può esserci stupro che tenga; se non sei più “vergine” (ah, potere di Louise Veronica Ciccone: vieni a me!), allo stupratore patrigno di trenta anni più vecchio vengono riconosciute le attenuanti della “minore gravità”, perché a 14 anni, la giovane è “sessualmente più esperta di quanto ci si può aspettare da una ragazza della sua età” (che arguzia, questi giudici di Cassazione!). Per non parlare dello stupro di gruppo. Con la sentenza n. 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione (esprimendosi in disaccordo con un verdetto di merito che, invece, riteneva che una violenza sessuale portata a estremo compimento sia di per sé un reato grave e non un episodio di “minore gravità”), ha deciso che durante una violenza di gruppo, deve essere concesso uno “sconto di pena” a chi “non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto”. In pratica, si possono commettere numerosi stupri portati a totale compimento – con la sopraffazione fisica della donna e della sua dignità – e nonostante ciò vedersi concessa l’attenuante di aver commesso un reato considerato di “minore gravità”, per il quale si può ottenere pure la riduzione della pena.

Ecco, cosa porta, la mentalità maschilista di stampo patriarcale che molti tra noi – uomini e donne – non riescono a lavarsi dalla mente. Ecco, a cosa portano i pregiudizi sessisti e gli stereotipi di genere con i quali è stata condita, nutrita e farcita la nostra società con il suo “society code” non scritto.

Ne sa qualcosa anche T. di nazionalità brasiliana, che – arrivata in Italia con un figlio al seguito, da madre single – è stata oggetto di ripetute violenze verbali e psicologiche, non solo per il suo essere donna, ma per le sue origini, che secondo taluni, raccontano solo un determinato passato. I brasiliani, sono tutti calciatori e le brasiliane, tutte donne che esercitano la professione più antica del mondo. “Mi deridevano, mi offendevano in tutti i modi. Per loro ero solo una prostituta(non ho nulla, contro queste donne, anzi, provo tanta pena per tutte, ma non lo sono mai stata!)e non una madre lavoratrice che cercava un futuro migliore per sé e per suo figlio. Peggio ancora, quando ho incontrato l’amore, qui in Italia e mi sono sposata. La famiglia di mio marito si è comportata con me come non aveva mai fatto nessuno: si è passati dall’indifferenza, dalle “battutine”, fino alle cattiverie gratuite ed alla violenza psicologica, anche nei confronti del mio bambino che è cresciuto qui ed ha dovuto assistere alla violenza che subiva sua madre. E’ stato ed è ancora, a tratti, insostenibile, andare avanti così. Sono quasi venti anni che vivo qui. Per queste persone, però, sono e sarò sempre una prostituta brasiliana, arrivata in Italia in cerca di un pollo da spennare”.

Di “Body shaming” ne ho parlato con altre due donne fantastiche.
“E’ dura, durissima, sentirsi ripetere continuamente di essere inadeguata perché hai dei chili in più” – mi confessa G., donna con la maiuscola – “Ho sopportato di tutto: dall’essere respinta dagli uomini nei confronti dei quali provavo dei sentimenti, all’essere schernita dalle persone ovunque mi trovassi, fino alla paura nell’affrontare un intervento chirurgico per la riduzione dell’obesità (al quale mi sono sottoposta per motivi di salute, più che estetici)” – continua – “Sono una madre sola, perché il mio compagno mi ha lasciata e devo provvedere al sostentamento mio e di mia figlia; devo dirti che anche questo, spaventa tanto: il fatto stesso di essere sola, con una bambina, mi espone al giudizio di chi mi dipinge come una “donna di facili costumi”, senza conoscermi. E’ nel posto in cui vivo, che trovo i maggiori pregiudizi: talvolta, nella mia stessa famiglia di origine”.

A causa del “Body shaming” esercitato nei suoi confronti dal marito, N. è arrivata a consumarsi fino – quasi – al suicidio. A salvarla, un messaggio di un’amica su whatsapp, che recitava più o meno così: “Ti voglio bene ed ho bisogno di te viva”.

“Mi sono tornate alla mente tutte le nostre avventure da piccole ed in un attimo ho capito che non valeva la pena, continuare a digiunare ed a torturarmi; ché così avrei fatto soffrire chi mi voleva realmente bene. Mi sono messa a ridere come non facevo da tempo ed ho chiamato la mia amica. Oggi sono separata, senza figli, ho quasi 40 anni e penso che la vita sia la cosa più bella che potesse capitarmi. Sembrava non ci facessi più caso” – mi confida N. – “quell’uomo (il marito, ndr), mi mortificava continuamente e pretendeva che gli facessi da serva; non avevo tempo per me, se non per mangiare. Poi sono cominciate le violenze, i tradimenti ed ho pensato che fosse colpa mia, che se fossi stata magra lui sarebbe cambiato, sarebbe tornato da me, sarebbe stato buono con me! Così ho cominciato a non mangiare: a poco a poco, evitavo questo, o quello, e se mangiavo, correvo in bagno a vomitare. Sembrava che questa situazione l’avesse calmato, perché giorno dopo giorno era come se mi asciugassi e lui pensava – sapendo quel che stavo facendo – che fosse la stradagiusta: “sei una chiattona, sei brutta, devi farti come un’alice”; che così avrei potuto stare al suo fianco senza farlo vergognare davanti agli amici. E invece, stavo perdendo me stessa sempre più. Un giorno, tornò più nervoso del solito e ricominciò a sfogarsi su di me e picchiarmi ed è stato allora, che capii. Non era colpa mia, non era il mio peso, la causa di questi abusi: era lui, solo lui! Sono scappata via da casa, poi gli avvocati hanno fatto il resto, ma continuavo a non mangiare, fino al ricovero in ospedale, quando ho ricevuto il messaggio della mia amica, che mi invitava a vivere. Un istante prima singhiozzavo e pensavo che non ce l’avrei fatta, ad uscirne ed un istante dopo, quando ho letto il messaggio, ho riso di gioia e mi sono salvata in extremis, grazie al sostegno psicologico che ancora ricevo”.

G. ed N. ci raccontano la faccia più terribile, del “Body shaming”: quello che ti spinge a colpevolizzarti, a temere il giudizio degli altri con terrore e che – come nel caso di N. – può condurti alla morte. E’ storia di qualche giorno fa, quanto accaduto ai Premi Oscar, proprio a causa di un attacco verbale violento di un “comico”, Chris Rock, nei confronti di un’attrice Jade Pinkett Smith, da anni in prima linea per sensibilizzare tutte e tutti noi sul problema di cui soffre: un’alopecia che le ha causato la perdita dei capelli. Quella battuta di Rock haprovocato la rabbia del marito di Jade, Will Smith e sappiamo tutte e tutti com’è andata a finire, tra il cazzotto di quest’ultimo al comico e la condanna dell’Academy che ha deciso per la messa al bando di Smith dagli Oscars per dieci anni. Mi chiedo perché prima di parlare e sparlare, non siamo capaci ancora di rispondere alle domande attribuite al Buddha“Ciò che dirai corrisponde a verità? Provocherà male a qualcuno? Sarà utile? Varrà la pena turbare il silenzio per ciò che vorrai dire?”. Basterebbe così poco.

Non è la prima cosa che ti viene alla mente, quando si parla di cancro, ma è così: chi soffre per questa patologia, deve subire tanti pregiudizi, aggravati da un carico ancora più pesante, se si è donna. Ne ho parlato con l’amica scrittrice, professoressa e giornalista Iolanda Stella Corradino, che da poco tempo èuscita sana e salva dalla malattia, grazie alle cure tempestive per un cancro al seno. “Ho letto di Carolina Marconi e dell’impossibilità per lei ed il suo compagno di adottare un bambino, od una bambina, perché lo scorso anno ha scoperto di avere un tumore. Pare che non sia idonea” – le chiedo – “Sì, è così, ho letto anche io. Sai che anche a me è stato proibito di avere altri figli? Il mio cancro era alimentato al 99% dagli ormoni e quindi, se volevo e voglio scongiurare una recidiva, non posso e non devo” – mi risponde – “Capisco, però so (sempre perché sono un’avvocata, eh), che la legge non impedisce l’adozione a chi ha avuto il cancro ed è guarito; nel senso che quando c’è una condizione di lunga sopravvivenza dalla diagnosi senza alcuna recidiva (in genere 5 anni), anche il buon senso ed il sacrosanto diritto del minore ad avere una famiglia, non possono impedire l’adozione.E’ bene informare chi legge, che occorre sempre studiare caso, per caso. I tumori al seno non sono tutti uguali e c’è anche chi è considerato guarito dopo due anni” – sottolineo – “Assolutamente vero. Pensa che nel mio caso (Stella ha due splendidi figli: Piero e Lidia, che saluto con affetto), quando mi hanno detto che non avrei dovuto più avere figli, ho accettato pienamente; ma ci pensi alla donna che deve sentirsi dire tutto questo, quando ha desiderio di averne e le viene vietato? Dev’essere terribile” – mi dice lei – “Credi di aver subito pregiudizi, da malata oncologica?” – le chiedo – “Dal punto di vista per così dire burocratico no; ma è attraverso la malattia, che ho potuto riconoscere i veri amici da quelli che non lo sono evidentemente mai stati. Sai, la malattia allontana le persone: ne hanno timore, quasi fosse una cosa contagiosa” – Stella è così: dalla grande intelligenza senza filtri, gioiosa, frizzante da sempre ed è con il suo blog “Piacere, cancro”, che ha sostenuto tante donne alla ricerca di notizie, di riconoscersi in qualcuno che stesse provando le stesse emozioni e sensazioni, dopo la diagnosi di cancro al seno – “Dopo l’intervento, ho ricevuto “in dono” al lato sinistro, dove mi sono operata, una scapola “alata” ed in virtù di questo disturbo, non riesco a farmi nemmeno una ceretta senza provare dolore; a 36 anni devo combattere con l’osteoporosi; ho dovuto cambiare stile di vita e devo dirti che c’è davvero poca attenzione e sensibilità, a volte, nei confronti dei malati oncologici anche in alcuni luoghi di ristoro, quando sono tenuta a spiegare a chi mi fa la battutina del “ma stai a dieta” quando ordino una pietanza in luogo di un’altra, che “no, non sto a dieta, sono guarita da un cancro e devo mangiare così”. Non parliamo, poi, delle questioni finanziarie. Mio marito, Peppe, mi dice che i prestiti ed i mutui non si concedono ai malati oncologici e nemmeno a quelli in remissione, trascorsi i cinque anni di follow up, perché considerati a rischio. Ecco, perché approfitto del tuo spazio per ricordare la raccolta firme lanciata dalla Fondazione Aiomriguardante il mondo finanziario e delle assicurazioni e volta ad ottenere una legge sul diritto all’oblìo: si chiede di stabilire un limite, uguale per tutte e tutti, dopo il quale nessuno abbia più il diritto di chiedere conto ad una persona del proprio passato oncologico. Chiedo ai tuoi lettori di sostenere l’iniziativa #iononsonoilmiotumore della Fondazione Aiom sul sito dirittoallobliotumori.org e ti ringrazio, per questa opportunità”.

Un’iniziativa assolutamente lodevole, che diffondo con piacere.

Sonia Veres è una madre quasi quarantenne, che vive e lavora in provincia di Milano. Attivista indomita a favore dei diritti delle persone, convive da anni con la SMA di terzo tipo, una malattia neuromuscolare che le impedisce di muoversi con facilità. Sonia è una “Mamma a bordo”, come titolava il suo blog, nato per dare supporto alle altre madri con disabilità.“La prima forma di violenza di cui ti voglio parlare, è quella che noi donne disabili subiamo quando non ci è concesso accedere agli ambulatori ed ai servizi sanitari con facilità, a causa delle cd. “barriere architettoniche” ancora esistenti. Quando aspettavo Leila (la sua splendida bambina che saluto con affetto), se non avessi avuto Francesco, mio marito, abile, al mio fianco, non so proprio come avrei potuto recarmi alle visite di controllo; non ho una famiglia alle spalle, perché avevo solo mia madre, poliomelitica, che  è mancata lo scorso anno” – mi racconta–“Sulla questione dell’autodeterminazione ed emancipazione, ti dico di essere stata assolutamente fortunata, quando a 18 anni ho avuto la possibilità di andare a vivere in un posto bellissimo unico in Italia, sempre a Genova, in una comunità gestita dalla Uildm (associazione che opera per chi soffre di Sma e distrofia muscolare); è lì che ho potuto costruirmi una vita tutta mia, trovando anche lavoro presso la pubblica amministrazione” – continua – “Le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Quando mi trovavo in comunità, vivevo in una “bolla”, nel senso che le mie amicizie erano tutte concentrate tra chi usufruiva come me, dei vantaggi del vivere nella comunità, oppure con chi era volontario; avevo anche amici dei tempi della scuola, quindi il mondo per così dire “esterno”, l’ho conosciuto nel mio trasferimento a Milano, quando ho conosciuto mio marito ed abbiamo deciso di costruire il nostro futuro il più possibile al suo luogo di lavoro (essendo difficilissimo, spostarsi tra Genova e Milano, per vedersi!). E’ stato solo allora, che ho sentito forte l’esigenza di far sentire la mia voce ed ho aperto la pagina facebook “Qui non è Marte”, per spiegare quanto noi donne disabili ci sentiamo lontane dalla definizione di “alieno” ed è lì che ho costruito una rete per denunciare cosa non andasse, nel nostro sistema e per accogliere le testimonianze di altre persone disabili che vivevano disagi a causa delle disfunzioni della società” – “Quando sono arrivata a Milano” – mi racconta ancora – “E’ stato difficile anche inserirsi in un contesto associativo di riferimento per avere informazioni, perché è chiaro che passare da un ambiente familiare ad un contesto completamente nuovo, non è sempre facile, agli inizi. Non ti dico, poi, per trovare lavoro! Nessuno mi valutava come una risorsa, ma si fermavano a considerarmi semplicemente una donna in carrozzina. Ho subito discriminazioni ad ogni colloquio ed è stato un vero disastro. Il CNR mi voleva mettere in prova, ma avevo ancora la residenza a Genova e nel trasferimento avrei perso dei benefits di cui godevo nella mia città di riferimento… Grazie alla mia associazione, dopo un po’, ho trovato lavoro nel Centro Clinico Nemo, per il quale presto ancora la mia attività, in smartworking, ma non è stato così semplice recarmici agli inizi, perché il centro dista quasi un’ora da casa mia e per tanti anni ho dovuto pagare un trasporto con metà del mio stipendio” – continua – “Non parliamo poi dei pregiudizi nelle relazioni tra uomo-donna disabile; sono pochi, coloro che vedono una donna, oltre la carrozzina, anche in questo senso. Non che Francesco sia un supereroe, bene inteso, ma serpeggia spesso quel certo senso di distanza, quando si incontra una donna disabile. L’amore che ha unito me e mio marito ha generato un frutto bellissimo, la nostra Leila; ti ho già detto delle difficoltà che si incontrano nel raggiungere gli ambulatori; a questa, ancor più grave in gravidanza, c’era la mancanza in alcuni tra questi di un lettino che si abbassava, od un sollevatore; fortuna che quando mi recavo a fare le ecografie potevo godere delle funzioni della mia carrozzina, il cui schienale poteva abbassarsi e concedermi di stendermi, per procedere all’esame; ovvio, che senza la collaborazione di mio marito, avrei avuto serie difficoltà” –mi dice  e poi continua, sollecitata dalla mia domanda sul come vive sulla pelle, pregiudizi e discriminazioni da donna e madre “a bordo” – “Ti dico che quando ho aperto il mio blog, era un periodo in cui vivevo le discriminazioni con rabbia; mi scontravo spesso contro la società ed i suoi limiti scritti e non scritti, poi, col tempo e la maturità, e con un diverso percorso psicologico, ho compreso che se tu ti accetti di più e sei più serena con te stessa, lo faranno anche gli altri ed è con questa lucidità, che le cose possono cambiarsi. Certo, quando mi trovavo a passeggiare con Leila e mia cognata mi aiutava a spingere il suo passeggino, sentivo una stretta al cuore, quando la gente faceva i complimenti a lei, per la bambina e non a me, non arrivando lontanamente ad immaginare che Leila potesse essere mia figlia, ma quel tempo è passato ed oggi affronto tutto diversamente. Denunciare quel che non va e costruire un mondo diverso è possibile, anche perché confido tantissimo nei ventenni di oggi e nella generazione dei nostri figli, molto più aperti alla comunicazione, alla informazione e molto sensibili e decisi ad affermare i diritti delle persone: basti pensare anche al movimento generato per il sostegno alle comunità lgbtqia+. A me dispiace, aver chiuso il blog e la pagina fb; l’ho fatto per tutelare la mia privacy dalla invadenza di taluni curiosi, ma sono apertissima ad accettare persone che abbiano bisogno di risposte, alle proprie domande, di supporto ed amicizia, magari anche nel mio spazio instagram”. Saluto Sonia con immensa gratitudine e rispetto; so che a lei non piace sentirselo dire, ma – lo avete letto nella sua testimonianza – è una donna fantastica.

La “ciliegina sulla torta”, la testimonianza conclusiva, l’ho lasciata a questa Lady.

Quando si vive un lutto improvviso, nella mente delle persone intorno – perché certamente non preparate ad un evento simile – si accendono diverse lampadine. La prima, è quella di sapere a tutti i costi cosa sia stato, a cagionare la morte, per poi trovare il modo di rassicurarsi in un modo, o nell’altro (ché la morte no, non è qualcosa che può accadere, quando tra le mani si stringono le corone del Santo Rosario ed il santino di quell’immenso uomo che fu Padre Pio). Poi, seguono i lamenti delle praeficae, non richiesti e non tollerati. Poi ancora, la stagione della commiserazione, altrimenti detta “del piangerti addosso”, cosa ben diversa dalla compassione, o “del soffrire empaticamente insieme a te”. Diciamo che le prime, quando mia figlia Duda è tornata improvvisamente a Madre Terra a due anni e quattro mesi, il ferragosto del 2017, le ho abilmente evitate. Per la commiserazione – ahimè –ho potuto far poco, anche perché si trasformò ben presto in un fenomeno inquietante, soprattutto su facebook (dove continuavo a scrivere, per tenermi in contatto con tante amiche ed amici vicine e vicini a me – quanto è stata importante la rete di solidarietà reale che si creò spontaneamente intorno a me! Mi sento solo di ringraziare). Ad un certo punto, alcuni cominciarono ad elevarmi al rango della Madonna di Pompei. La cosa – fin troppo lusinghiera, per carità! – era preoccupante, per la degenerazione verso la quale il fenomeno stava dirigendosi, con persone che mi inviavano richieste di preghiera, o le immagini dei propri cari defunti, seguite da improbabili litanie in latino di cui – onestamente – non avevo notizia ed ancor più ne provavo piacere, al leggerle. Poi ci fu lei: la donna che mi chiamò “madre coraggio” e fu allora, vi assicuro, che toccai vette di illuminazione mai raggiunte in ventidue anni di pratica buddista e yogi. “Cancellati immediatamente da facebook” – mi suggerì la voce della coscienza(od era semplicemente il mio cervello) – E così fu: puf! In un attimo cassai il mio profilo, perdendo – e questo inciso è riservato ai soli social media managers all’ascolto – i miei quasi cinquemila contatti del mitico figlio virtuale di Zuckerberg. Questo mio racconto oserei dire “umoristico” – ma sono fatta così e non cambio nemmeno davanti alla morte (essa ‘o ssape) – va a costituire il substrato sul quale arrivare a parlarvi dei pregiudizi nei confronti di chi subisce un lutto.

Il “society code” richiede espressamente: di piangere e disperarsi a dismisura ai funerali; di accettare le praeficae che devono necessariamente strapparsi le guance davanti a te, per mostrarti il loro dolore alla notizia; di apparire stanca e dimessa il più possibile; di aderire ai gruppi di preghiera dei dintorni; di renderti disponibile al telefono perché c’è gente che vuole piangerti addosso a tutti i costi e se non riesce a farlo di persona, almeno deve farlo per telefono (echecazzo, già sei scappata a New York, questo me lo devi concedere) e – dulcis in fundo – rispondere alla gente che mentre seppellisci tua figlia di due anni al cimitero, ti sussurragentilmente all’orecchio (perché sarebbe indelicato, ad alta voce, no?): “mo’ n’avita fa’ n’ato” (traduzione: adesso ne dovete mettere un altro, al mondo). In tanti si sono chiesti i motivi del mio atteggiamento lucido e tranquillo; in tanti non riuscivano a pensare nemmeno lontanamente che le lacrime potessero scendere nel privato e che il dolore potesse essere accolto e gestito diversamente e lontano dai riflettori. Sarà apparso strano anche il nostro volare a New York insieme a nostra cugina americana Lisa, di ritorno a casa sua, dopo i funerali, per allontanarci dalle visite inopportune post disgrazia e trascorrere del tempo consentendoci il lusso di camminare per le strade tra persone che non ci conoscevano e sapevano e che incontrando i nostri occhi avrebbero letto solo lo sguardo di una donna ed un uomo e non di due genitori orfani. Ringraziando il Dio cristiano e la mia Madre Terra, abbraccio da tempo immemorabile la filosofia Zen e ringraziando mia figlia Duda, ho sempre bene impresse nella mente e nel cuore le sue parole: “Mamma, di’ sempre io sono felice e io ti voglio bene”; altrimenti, contro i pregiudizi e la mancanza di tatto di chi – poveretti, non erano in grado di capire –si comportava e pretendeva da noi un certo “society code da lutto”, altro che strage (verbale, s’intenda).

In conclusione, cosa può salvarci dai pregiudizi? Un nostro caro amico di famiglia, Vittorio Carbone, titolare dell’edicola accanto alla stazione della Circumvesuviana a San Giuseppe Vesuviano, ha risposto così: “I pregiudizi sono figli dell’ignoranza, Elià. Nel senso che chi agisce in questo modo lo fa perché non conosce davvero la vita, non la conosce a fondo ed ha paura di cosa potrebbe scoprire e sapere, utilizzando lo strumento della conoscenza. Contro il pre-giudizio l’antidoto sarebbe un bel mix di rispetto, empatia, sensibilità e compassione”.

Come dargli torto.

E’l’esempio familiare, che può costruire un mondo nuovo. Il perbenismo ed il benpensantismo fuori, la “bella facciata” serve a poco, se poi rientriamo a casa e regaliamo ai nostri figli, nei nostri discorsi, pillole di pregiudizio, discriminazione e violenza quotidiane. Su queste basi, può solo continuare ad esistere il modello di società nel quale viviamo. Un brodo di coltura per ogni genere di abuso, bullismo, sopraffazione, fino alla guerra.

Vi lascio con questa riflessione e vi aspetto, con i vostri commenti, nei messaggi direct su instagram o su messengerfacebook (il mio nuovo profilo, con pochissimi contatti: meglio pochi, ma buoni).

Bisous bisous dalla vostra Lady e… Alla prossima settimana, sempre su RoadTv Italia.