Una giovane donna suicida per un suo video hard diffuso in rete… Una 17enne a Rimini, filmata dalle compagne che ridono e che poi diffondono la registrazione video (risate incluse), mentre subisce uno stupro nel bagno di una discoteca.
No, non importa che la ragazza fosse ubriaca e che la giovane donna ostentasse la sua avvenenza. No, non importa (sebbene grave) che la ragazza potrebbe anche essere stata vittima delle note droghe nelle bevande…
Quello che conta è la violenza fisica e psicologica, quello che deprime è il tradimento delle amiche, di altre donne o di chiunque si sia reso conto di quello che stava accadendo e non sia intervenuto in soccorso. Quello che dilania è la facilità con cui si girano video dell’orrore, sapendo che quello cui si assiste è una violazione, sapendo che fare dei video di nascosto è un’ulteriore violazione, sapendo di tradire la privacy ma, ancora di più, la persona.
Il desiderio di visibilità ossessiva, non può essere legittimato dalla violenza che si perpetra ai danni di chi subisce violazione del proprio intimo né la violenza legittima la visibilità. L’eccessivo bisogno di visibilità è molto più pericoloso del cyberbullismo; non è solo la carica perversa che induce a commettere soprusi verso chi resta vittima della pseudo sagacia nel riprendere e pubblicare immagini che nessuno ha il diritto di rubare e diffondere, ma è la maligna perversione di chi non dà più valore alla persona umana e non ne rispetta l’essenza.
Questo va oltre il bullismo o cyber-bullismo, questo è un deficit umano, una carenza di senso che spinge a godere del dolore e dell’offesa subita dall’altro per un malcelato bisogno di non poter accettare che altri siano sereni. Come se riducendo l’altro a zero, non importa se a costo della sua vita fisica e/o psicologica, ci si riscattasse del proprio nulla e ci si sentisse in “possesso” di qualcosa, ci si sentisse il “potere” di gestire l’esistenza.
Non vi è dubbio che in troppi non sino i social o la rete in modo intelligente e congruo, ma piuttosto per denigrare e offendere, il che non è per niente “social”.
In rete vigono le stesse regole della vita non virtuale: correttezza, rispetto, onestà. Se queste regole non sono seguite non è colpa della rete ma delle persone.
In rete ci si nasconde meglio, il che fa pensare ancora di più a quanto sia miseramente fugace e falsa la visibilità che si presume di avere poiché se ci si nasconde nell’ombra, ombra si resta.
Il punto, però, è anche un altro. Non è vero che non ci sia informazione sull’uso adeguato della rete e dei social.
Non c’è scuola, comunità, gruppo, non c’è giornale o trasmissione televisiva o radiofonica che non abbia affrontato, almeno una volta, il tema, che non vi abbia costruito progetti, che non abbia espresso il proprio parere.
Il punto, allora, non è l’informazione (caduca e fallace come spesso accade), ma la “formazione” che non si accontenta di conoscere i fatti ma di incarnarli in un sentito e un vissuto che ne sia conseguenza.
Non, dunque, il sapere per sapere, ma il sapere per agire. Qui è il vero problema, imprescindibile, della comunicazione e di ogni relazione umana. Il “male” è più radicato e diffuso… andando a ritroso, dal web passiamo alla comunicazione televisiva… quante sono e quanto gravi le carenze di una comunicazione efficace (cioè, significativa, non urlata, positiva e propositiva)?
Lo stesso accade spesso anche nella comunicazione radiofonica, nei comizi e nelle discussioni pubbliche, nelle classi e nelle famiglie.
Per ogni livello e ambito di comunicazione, sempre più rari sono i principi base della comunicazione stessa (li ripeto, correttezza, rispetto, onestà); quello che si vive nella vita reale è “trascinato” in quella virtuale (che spesso diventa più reale del reale), con la conseguenza che lo stile che non si adotta nel reale, non si adotta nel virtuale.
Alle radici di ogni relazione o confronto (che per principio devono essere reali, cioè “veri”, anche se virtuali) non c’è la macchina e i meccanismi informatici, ma la persona… sì, proprio quella che dimentichiamo di vedere quando ci passa accanto o quando le urliamo contro per mostrare il nostro disaccordo, o quella sotto la cui violenza verbale e no-verbale soccombiamo incapaci di essere noi stessi.
Dietro le cose, ci sono le persone… sul web, si sa, tutto è più facilmente amplificato ed eterno, ma sono le persone quelle che decidono cosa amplificare e far durare. Se si avesse il coraggio della correttezza, del rispetto e dell’onestà, nessuno sarebbe vilipeso e indotto fino alla morte… questo, ahimè, è vero nel virtuale quanto nel reale.
C’è anche un altro punto: la dimensione del gioco, o pseudo tale.
Ogni cosa viene spesso giustificata con “era un gioco, uno scherzo”… Non si gioca più “con” ma “alle spalle di”… Privando il gioco del suo valore ludico in quanto condiviso. Come se “giocare” fosse l’obiettivo primario e finale della relazione.
La cosa triste è che ci si auto convince che davvero si tratti di uno scherzo per deviare da se stessi la responsabilità di quello che si fa, di se stessi e dell’altro.
Il gioco serve a crescere e maturare non è un’arma di offesa o di morte, altrimenti non è un gioco.
In una società in cui tutto si ritiene possibile e senza limiti ed esclusione di colpi, le norme etiche sono considerate noiose e poco divertenti, poco pratiche e isolanti… In una società in cui l’esibizione è la virtù, non conta l’essenza e non ci sono valori e regole… fare i “piacioni” attira simpatie, osare fino all’eccesso convalida il potere… non importa la dignità di chi ne resta danneggiato.
E’ una non-società quella in cui ci destreggiamo, perché tutto ciò che supera l’egoismo dell’io non esiste.
C’è un ultimo, terribile, discorso, l’esposizione del corpo e dell’intimità femminile per umiliarla.
Mi sono chiesta perché solo Tiziana sia stata giudicata per il suo filmato, erano in due… ma di lui non si dice, non si parla, lui ne aveva forse diritto? Mi chiedo perché delle compagne possano divertirsi a pubblicare il video dello stupro di un’amica, chi dovevano compiacere, se stesse o i maschi?
E’ un discorso antico, in realtà. Il solito punto, ciò che per le donne è oltraggioso e volgare, per l’uomo è riconoscimento di forza e di potere.
Siamo forse alle soglie di un altro genere di femminicidio? L’induzione al suicidio come conseguenza della diffusione mediatica? Conviene riflettere prima che un fatto si trasformi in norma.
di Loredana De Vita
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