Editoriale – Essere Europei

di Umberto Aleotti.

Si è molto discusso su che tipo di interventi l’Unione europea abbia messo in campo per l’Italia nella situazione di emergenza dovuta alla pandemia Covid-19. È stata in particolare criticata la sua lentezza nell’attivarsi, l’esiguità degli aiuti economici inviati e la scarsa solidarietà dimostrata, sul presupposto di valutazioni che si sono in seguito rivelate prive di effettivo fondamento. Se si eccettua, quindi, l’iniziale ritardo nell’acquisire consapevolezza della gravità del problema sanitario, si può affermare che l’Unione, nell’ambito delle sue competenze, abbia fatto e stia facendo la sua parte. E’ dunque lecito porsi un quesito. Perché muovere critiche all’Unione, sollevando dubbi circa la correttezza del suo operato istituzionale, anche quando non sono giustificate?

Eppure le cifre stanziate sono importanti ed è soprattutto grazie ad esse, che, probabilmente, sarà evitato lo tsunami economico da alcuni paventato. Difficilmente l’Italia avrebbe potuto compiere da sola uno sforzo finanziario di portata così ampia e questa considerazione dovrebbe essere di per sé sufficiente a far ritenere che essere membri dell’Unione europea e aver adottato una moneta unica forte come l’euro rappresenti un vantaggio economico. Si potrebbero, d’altronde, evidenziare numerosi altri aspetti, che consentirebbero pacificamente di confermare la convenienza economica che deriva all’Italia dall’essere uno Stato dell’Unione, taluni dei quali, peraltro, immediatamente percepibili, come l’opportunità per le imprese di collocare liberamente i propri prodotti e servizi nel grande mercato europeo o la possibilità di recarsi in uno degli Stati membri a lavorare o studiare alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro di destinazione.

Non è però su questo che occorre soffermarsi, perché le critiche a cui l’operato delle istituzioni europee è stato sottoposto nascondono in realtà la diffidenza verso un modello di integrazione interstatale, frutto di un’idea elaborata alla fine della seconda guerra mondiale, che evidenzia scarsa fiducia nelle sue possibilità di realizzazione. Si tratta, conseguentemente, in questa sede di ricordare cosa esattamente vuol dire essere europei, ovvero che significa far parte, come cittadini di uno Stato membro, di quel disegno di unificazione a livello continentale, che ha assicurato in Europa circa settanta anni di pace e, grazie a questa, anche di sviluppo economico. L’integrazione europea presuppone la condivisione di valori che sono avvertiti come fondamentali dai popoli continentali, ruotando attorno ad essi l’intera edificazione del futuro Stato unitario europeo. Essi costituiscono l’imprescindibile comune denominatore su cui si basa l’appartenenza di ciascuno Stato membro all’Unione e l’irrinunciabile punto di riferimento dei rispettivi ordinamenti nazionali, suscettibile, in caso di violazioni, di condizionare la loro permanenza all’interno del consesso europeo. Oltre alla pace, sancita nell’articolo 3, n. 1, del Trattato sull’Unione europea, i valori fondamentali sui quali è imperniata l’Unione sono elencati nell’articolo 2 del Trattato U.E., in cui è stabilito che: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri (…)”.

Il legame degli Stati con l’Unione europea presuppone così la comunanza di questi valori, che devono essere accettati nel momento dell’adesione all’organizzazione e rispettati in costanza di accordo. Se questo è vero, rimproverare all’Unione errori compiuti nello svolgimento delle sue attività può aiutare a costruire un’Europa che sia più vicina alle reali esigenze dei suoi cittadini, criticare, invece, in modo inopportuno o pretestuoso il lavoro delle istituzioni europee, equivale ad attaccare direttamente quel nucleo di valori fondamentali, che l’Italia, insieme agli altri Stati membri, si è impegnata a osservare e che essa stessa ha, come Paese fondatore, contribuito a generare e rafforzare. Rispetto a tale assetto giuridico, è indispensabile, se non altro, elaborare, prima di manifestare il proprio dissenso, un modello alternativo di pacifica convivenza, provvisto di norme in grado di esprimere un equilibrato meccanismo di relazione tra gli Stati, che riesca a contemperare, da un lato, le esigenze di stretta cooperazione e, dall’altro, la tutela delle identità nazionali, al pari di ciò che avviene nell’Unione, dove trova realizzazione il noto motto “in varietate concordia” (“uniti nella diversità”), tramite il riconoscimento, nell’articolo 5, n. 3, del Trattato sull’Unione europea, del principio di sussidiarietà, in conformità al quale: “(…) nei settori che non sono di competenza esclusiva, l’Unione interviene soltanto se ed in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale o locale, ma possono, a motivo della portata e degli effetti dell’azione in questione, essere meglio conseguiti a livello dell’Unione”.

La bontà del complesso meccanismo dell’Unione emerge, in verità, con chiarezza, quando si guarda ai propositi che ne hanno ispirato sin dall’inizio l’attività, la censura dei quali diviene, a ben vedere, piuttosto ardua. “La trasformazione di una coalizione di Stati in coalizione di uomini” (J. Monnet) e la “creazione di un potere democratico europeo” (A. Spinelli) sono stati, e ancora oggi sono, gli scopi di fondo dell’Unione. La loro prorompente attualità e la loro straordinaria semplicità fanno dell’organizzazione europea un paradigma di riferimento unico e inimitabile nel suo genere, a cui il mondo intero può guardare come esempio di civiltà giuridica, che non ha possibilità di essere replicato, perché nessuna area del pianeta presenta una cooperazione interstatale con caratteristiche analoghe.

È a questo insieme di valori e nobili finalità, dalla cui combinazione scaturisce un modello di comunità pronto all’occorrenza a sostituire sul piano internazionale quello statunitense, che si toglie pregio con le critiche euroscettiche. Rinunciare a essere europei per essere italiani, senza riuscire a cogliere l’assenza di antitesi tra i due status giuridici così come armonizzati dall’Unione, costituisce il frutto di una visione dei rapporti internazionali che appare obiettivamente poco lungimirante.

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Redazione Desk

Questo articolo è stato scritto dalla redazione di Road Tv Italia. La web tv libera, indipendente, fatta dalla gente e con la gente.

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