Angela Procaccini legge Giacomo Casaula
di Angela Procaccini
Intriga e coinvolge nella sua scrittura asciutta e determinata questo romanzo dal titolo fascinoso, “Scie ad andamento lento”, (ed. MEA) di Giacomo Casaula, un giovane scrittore amante del teatro. Protagonista ne è Stefano de Sanctis, anch’egli giovane scrittore (alter ego?) che in un itinerario spirituale che lo riporta a Cattolica, luogo dell’anima della gioventù, va alla ricerca “del tempo perduto”: ricordi, emozioni, speranze ed illusioni, amicizie ed amori, tutto quello che in una fase delicata dell’esistenza, quale può essere la prima giovinezza, caratterizza la formazione umana.
Il titolo è di forte suggestione e sembra un ossimoro tra la luce diafana delle scie e l’andamento lento che se ne determina. Infatti i protagonisti delle vicende di vita e d’arte di Stefano/Marcovaldo (il magazziniere ingenuo e buono di Italo Calvino) sono scie perché lasciano una traccia più o meno luminosa nella vita del protagonista, ma lo sono ad andamento lento perché riescono “ancora a emozionarsi se sono innamorate, a sentire le canzoni come ricordi di sfumature lontane e perse nel tempo …” Riescono cioè, in poche parole, a sentire il fascino delle piccole emozioni della vita, quelle che l’uomo di oggi non avverte più, divenendo “smagato”, privato della magia del vivere.
Il libro si snoda e si articola in rapidi capitoli che ci consentono di seguire il nostro Stefano nel percorso di riconquista delle sue memorie, alcune proiettate al positivo ed alla gioia, altre più chiuse ed amare, perché, come scriveva Isabel Allende,”la vita è un arazzo e si ricama giorno dopo giorno, con fili di molti colori, alcuni grossi e scuri, altri sottili e luminosi”.
La sua vita Stefano, come forse Giacomo, l’ha ricamata in questo arazzo dai molti colori descritto nel libro. C’è infatti l’ambizione, la volontà di scrivere, il tormento della creazione, la delusione e l’apatia, poi la tenacia e la determinazione, la volontà di affermarsi e di ritrovare il suo equilibrio.
Ma c’è anche l’affetto tenero per i genitori, la semplicità dei rapporti amicali, l’amore sofferto per Elisabetta, la riscoperta dell’amore con Elena.
E c’è anche il mare, questo elemento naturale che solo anime elette riescono ad apprezzare per quello che esso è e dà. Soltanto il mare come orizzonte permette che le vie dell’immaginazione e del pensiero possano “srotolarsi” senza intralci, a perdita d’occhio. Il mare di Cattolica, grigio di pioggia o azzurro di spuma, il mare di Via Caracciolo a Napoli, sono elementi importanti nello sviluppo delle vicende, strettamente collegati agli stati d’animo del protagonista, che sembra scegliere di guardare il mondo attraverso la trasparenza dell’onda. D’altronde Cécile Guérard dice: “ L’’acqua e l’anima condividono la stessa natura: l’inquietudine”
Ma a mio avviso due sono i fulcri intorno a cui ruota il microcosmo di Stefano. Il primo è la donna, creatura ambita e cercata in una affannosa e intrigante ricerca che lo porta a guardare sempre con attenzione le creature femminili incontrate nel suo giovane percorso di vita: ognuna di loro può dirgli qualcosa, ognuna contiene in sé il fascino del mistero, della bellezza e dell’eros. Esse sono tutte descritte con attenzione particolare, ma anche con delicatezza, da Sofia ed Erica dolci immagini adolescenti, a Diana, “massa bionda” e occhi verdi incrociata per caso, a Ginevra, ad Elisabetta donna importante nella sua vita, quindi ad Elena che poi sarà il suo nuovo amore … Creature magiche, come è magica la donna, scie di colori ma soprattutto di luce.
Altro fulcro del romanzo è il desiderio della scrittura, direi il desiderio della creazione, del poiéo (ποιεω), quello che tormenta gli artisti nei vari settori. In lui una volontà ferma e determinata di far rinascere il seme dell’arte, perché “la scrittura ci dà il senso della bellezza che è in noi” (Giuseppe Ferraro). O perché, come Camilleri scrive, “La scrittura non è magia, ma può diventare la porta di ingresso per quel mondo che è nascosto dentro di noi”.
Ed infatti la scrittura di Giacomo ci fa entrare nel suo mondo nascosto, ci apre quel microcosmo segreto alla ricerca di sé: un viaggio il suo, per scoprire – o riscoprire – gli affetti, le sensazioni, anche i profumi, elementi tutti che hanno la loro importanza per allargare e illuminare la visione d’insieme.
D’altronde, il viaggio – dentro e fuori del sé- è stato sempre importante per gli artisti in genere, per gli scrittori in particolare. “Partire esige uno sradicamento che strappa una parte dal corpo che resta aderente alla riva di nascita, alla casa e al villaggio degli abitanti, alla rigidità delle abitudini …. Nessun apprendimento evita il viaggio …” (Michel Serrés).
Così Stefano si sgancia dal suo ambiente, dal suo presente, e viaggia alla ricerca del tempo perduto, delle amicizie, dei luoghi amati, per aprirsi nuovi varchi. Vorrà attraversarli esponendosi al rischio di perdersi per poi ritrovarsi, per ritrovare il senso del proprio stare nel mondo, come condizione dell’apertura verso l’altro, e quindi del reciproco di svelarsi.
C’è un’altra nota che vorrei aggiungere, quella relativa al nuovo romanzo, “A-mare”, il cui cuore pulsante è una donna, e non poteva essere diversamente.
Anna è una creatura che ha provato umiliazioni e difficoltà nella sua pur giovane esistenza, ma che si riscatta attraverso l’arte, per la precisione la musica, il violino. Da artista di strada viene scelta per collaborare ad un progetto rivoluzionario, il che le consentirà di entrare nel sacro tempio del Teatro San Carlo di Napoli, poi nel Teatro Brancaccio di Roma.
In lei, per certi aspetti, ho visto da subito determinazione, audacia pur nelle emozioni, voglia di vivere e di affermarsi. Anche lo stile dei capitoli che la vedono interprete di sé, è particolare, un flusso di narrazione continuo che si adegua al personaggio.
Di Anna mi piace ricordare un’unica espressiva immagine da lei usata: “mi sento come il riflesso di luna sul Tevere”. Non poteva usarsi suggestione migliore per indicare l’ebbrezza e la bellezza che la giovane sta provando per il suo violino. È proprio vero che “la musica può fare di un’anima devastata una Cattedrale” (Vasile Ghica).
A corollario del libro “Scie ad andamento piano”, mi viene in mente una delle liriche che più amo di Pablo Neruda “No me pregunten”, “Non mi chiedete”. Inizia con versi chiusi:
“Ho il cuore pesante / per tante cose che conosco, / è come se portassi pietre / smisurate in un sacco…”. Ma poi, nella conclusione, Neruda dice:
“Il tempo chiaro è l’amore, / il tempo perduto è il pianto”
Stefano de Sanctis, come Giacomo Casaula, è passato dal tempo perduto al tempo chiaro.