Concreta durezza e libertà assieme, danno del buon uso delle parole un significato che trascende le parole stesse per dare spazio al senso di responsabilità con cui devono essere usate.
Le parole feriscono più di un pugno e, come un pugno, lasciano segni difficili da cancellare; nello stesso tempo, però, le parole trascinano verso mondi possibili e impossibili, verso realtà che hanno senso solo quando le attribuiamo un nome, quando le chiamiamo per nome.
Nulla esiste finché non ha nome e si nomina solo ciò che, in bene o in male, entra a far parte dell’esistenza di ciascuno.
Sabotare, è una di queste parole che può essere pronunciata e ribadita con coraggio solo da chi ne conosce il valore e il significato responsabilmente, Erri De Luca è certamente tra questi.
Sabot è una parola che significa “zoccolo” ed era lo zoccolo di legno che gli operai nelle fabbriche inserivano negli ingranaggi dei macchinari cui lavoravano per bloccarsi e per protestare contro l’orario e le condizioni disumane di lavoro cui erano costretti.
Il sabotaggio, cioè, non nasce come un’azione violenta, ma come un modo per porre in evidenza e sotto gli occhi di tutti, un malessere nascosto.
Sabotare per porre alla luce è un diritto della persona umana; è mostrare agli occhi del mondo una situazione che i poteri tendono ad occultare per sostenere i propri interessi, soprattutto economici e politici, senza preoccuparsi di tutto il resto.
Nel caso specifico della Tav, non ci si preoccupa del benessere della gente né dell’ambiente e della natura che ne soffrirebbe le conseguenze in caso di costruzione. Pare, inoltre, che sia già superata oltre che inutile. Ma, qui, non è questo il punto.
Sabotare, allora, diviene il diritto dei senza parola di farsi notare e di farsi ascoltare; il diritto di dare un loro nome a delle verità nascoste che il nome lo hanno, ma che il pronunciarlo porrebbe immediatamente in posizione sfavorevole rispetto a ciò cui si vuole imporre.
Indimenticabile, per esempio, l’immagine di protesta del film di Chaplin “Tempi moderni” in cui l’operaio è risucchiato dalla macchina e ne diventa un ingranaggio, un sabotatore interno che, suscitando il riso lascia un forte retrogusto amaro e malinconico.
Sabotare, quindi, quando non si ricorre alla violenza contro altri, e non si deve mai, è un modo per esprimere il disagio, un modo per dare voce alla coscienza… di questo parla Erri De Luca.
E parla, si deve parlare, perché le parole sono sostanza e non sogni; perché le parole hanno una spessore e una profondità al di là della forma e dell’apparire.
Non bisogna, cioè, giudicare un libro dalla copertina, certo… ma non bisogna neanche coprirsi gli occhi facendo finta di non vedere le parole e di non dare loro la vita che gli spetta nella vita di ciascuno.
Le parole danno scandalo, ma non quelle adoperate con correttezza e con principi. Danno scandalo quelle sprecate per offendere; quelle che ledono l’intelligenza altrui con la propria vuota ridondanza; quelle urlate nei luoghi dell’ascolto e della condivisione, come in Parlamento, dove non c’è più né ascolto né condivisione, ma lo spettacolo della (in-)coscienza politica che si degrada e che degrada la dignità dei cittadini o degli abitanti di questo tempo e di questo spazio sempre più vuoto di pieni e di senso… di pienezza e di direzioni.
Le parole sono politica, ma non quella che si riveste di potere, che è altra cosa. Sono politica perché danno valore ai bisogni e alle esigenze e al benessere più che al benestare di tutti e non solo dei pochi che godono dei privilegi acquisiti sul lavoro e i sacrifici dei più.
Le parole sono bellezza, quella che forse non salverà il mondo, ma che deve essere insegnata per tener fede a una promessa, la promessa di felicità …il bello è una promessa di felicità (T. Adorno)… le promesse sono attive e non passive se devono realizzarsi.
La bellezza in sé, come la parola, non è salvifica, ma può produrre “illuminazioni” sul mondo reale nel quale viviamo e in cui esiste il bello e il brutto, il male e il bene.
La bellezza come promessa di felicità si realizza non adattandosi e dando per scontato né il bene né il male, ma cercando e alimentando quel bene e quel bello che non finiscono a noi (benestare) che che nutrono anche l’altro accanto e oltre noi (benessere).
No, da sola la bellezza non potrà salvarci. La persona umana si è sempre distinta anche per un’operosità talvolta mal diretta perché mal pensata. Forse è su questo che bisogna intervenire educando e testimoniando.
La bellezza potrà salvare solo se vissuta dall’interno, creduta dall’interno e manifestata nelle cose semplici delle relazioni quotidiane che hanno un nome e che si esprimono nelle parole. Non più bellezza come estasi, dunque, ma bellezza come frutto concreto di cervello cuore e azione auto ed etero diretta.
Abolito il senso dell’utopia (impossibile) ci abbandoniamo alla distopia (possibile) inermi e senza spina dorsale. Per quanto la seconda sia più dura e dolorosa da sopportare, essa è paradossalmente più facile da vivere, perché ci libera dalla responsabilità dell’altro e, spesso, persino della responsabilità e del dovere verso noi stessi.
Ciò che distingue il buon uso delle parole da quello cattivo è la coscienza libera e onesta di chi le incarna vivendole e testimoniandole con il coraggio appassionato e onesto della verità.
di Loredana De Vita
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