Di femminicidio si continua a parlare, un po’ meno in realtà, non perché siano diminuiti gli episodi, ma perché ci siamo abituati a scadenza quasi regolare a sentirne discutere, o come se bisognasse toccare l’argomento solo quando le cronache riportano di qualche nuovo episodio.
Il femminicidio, però, non è un argomento di conversazione, non un mito da raccontare nelle serate estive o quando proprio non si ha null’altro da fare. Il femminicidio è una realtà quotidiana e il parlarne soltanto non basta.
Quando una donna viene “fatta morta” o ferita, o minacciata, non ci si trova dinanzi a quotidiana routine, ma dinanzi a un fenomeno in crescita quasi quanto cresce il silenzio che nuovamente si vuole far scendere sulle cause che differenziano il femminicidio da un omicidio qualsiasi. Ancora di più invece, bisogna sollevare l’argomento, perché nuove e deformanti interpretazioni prendono vita: la morte o la violenza contro una donna diviene “colpa” della donna, “colpa” della famiglia della vittima, “colpa” della comunità che non ha parlato, “colpa” di tutti tranne che del carnefice. Questo è insopportabile.
E’ vero che ciascuno che si è nascosto nel silenzio ha una responsabilità, tranne la donna vittima, perché è l’unica che deve essere sostenuta per sfondare il silenzio e che non può riuscirci se altri non le sono accanto (persone e istituzioni); ma è anche vero che spostare, come sempre, l’attenzione solo sui responsabili del silenzio allevia l’attenzione (mediatica e non) dal colpevole reale, da quello, cioè che ha commesso il fatto.
Per questo nascono nuove narrazioni in cui lo stupratore “è stato provocato”, il molestatore ha delle attenuanti perché “ubriaco” (non dimentichiamo che se è la donna a essere ubriaca, questo diviene negli atti giuridici un’aggravante contro di lei), il violento esercita il suo potere perché “legittimato” dal ruolo di marito/compagno offeso e abbandonato.
Per questo nascono nuove narrazioni e interpretazioni anche ad opera di altre donne che hanno la presunzione di affermare la propria distanza dal silenzio delle vittime; una distanza che rapidamente si trasforma in atto di accusa e che, di conseguenza, percorre lo stesso filone “salvifico e giustificate” del carnefice invece che di chi ha subito. Su questo pensiero, stenderei un velo pietoso, perché è davvero vergognoso parlare di cose che non si conoscono con l’aria di chi possa ergersi a giudizio mentre si resta nell’ignoranza tranquillizzante di chi si sente fuori e vuole restarci per non esserne coinvolto.
E’ un grave errore, però, perché la storia di una è la storia di tutte e di tutti; solo mettendosi “nelle scarpe” degli altri si può comprendere quanto siano strette o larghe.
Eppure, ci sono troppe persone che vogliono solo i “fatti” a dimostrazione della propria ignoranza e/o comodità. L’episodio di cui narro è reale, accaduto nel quartiere di Fuorigrotta.
Non conosco esattamente la zona, per questo non ne faccio il nome. Dopo aver ascoltato quel racconto, mi è rimasta addosso una strana ansia e malinconia, come di qualcosa che mi sfuggisse e cui, invece, volevo dare un nome. Un episodio di violenza, certo, ma voglio concentrarmi di più sulla violenza silenziosa e abulica di chi ha visto, ha sentito, ha anche fatto un minino di intervento, ma si è poi dileguato senza andare fino in fondo.
Dopo il racconto ascoltato, ho provato una strana e intricata sensazione, come se chi ha raccontato avesse una parte in quel racconto, ma se ne sia astenuto senza accorgersi dipoter fare la “differenza”.
Alcune “differenze” possono salvare una persona, non per sempre, certo, ma in quel preciso momento possono offrire una chance probabilmente irripetibile. Il racconto era “doppio”, non duplice, ma proprio doppio, falso, un tentativo di spostare l’attenzione dall’essenziale e far cadere su altri quella responsabilità che talvolta interpella in prima persona, ma, avendone paura, la si allontana da sé.
…el pueblo unido jamas serà vencido…
Il racconto ascoltato aveva per me il senso della mancanza personale di chi parlava e non di altri costretti dalla necessità della certezza di verità nella chiamata di emergenza a “prendere” non perdere un po’ di tempo… che non sarebbe stato vano se la signora in questione invece di nascondersi dietro i sì e dietro i ma avesse detto nome e cognome.
Anche di fronte a una tragedia che si svolge sotto gli occhi si può avere il tempo di pensare a se stessi? Sì, evidentemente sì.
Poi, ci si rende conto, forse, dell’ignavia vile della propria azione e allora si cerca di scaricare fuori di sé quella responsabilità (divenuta sotterranea complicità) che altrimenti non consentirebbe di vivere con quel peso addosso.
Il fatto è questo. In un luogo improbabile per discorsi seri, si commenta l’ultimo femminicidio. Già il commentare con toni acidi contro la donna vittima che non si è ribellata è squallido, “è colpa sua” diceva una signora perché non avuto amore neanche per i suoi figli e lo doveva denunciare.
Giusto, bisogna sempre denunciare, ma si può davvero considerare “colpa” il non farlo? No, ma ci sono persino donne che responsabilizzano le donne vittime di inazione. Già a questo comincio a ribellarmi maggiormente spiegando cose che non dovrebbero essere spiegate e soffrendo nel vedere l’ostilità femminile che si rende simile a quella del maschio assassino cavalcandone gli stessi stereotipi.
Poi, una signora racconta un episodio che le è accaduto.
Di sera tardi, sente la voce di una giovane donna urlare e implorare aiuto. Si affaccia alla finestra della sua camera da letto e vede nella strada un po’ isolata, una macchina parcheggiata con un giovane e una giovane che litigano. In realtà, pare, è lui che litiga, lei prende solo calci e pugni, piange urlando “basta” e “aiuto”. La signora resta a guardare, muta. Poi, quando vede che la ragazza si accascia a terra si decide a chiamare la polizia. Spiega quello che ha visto dalla finestra, indica il nome della strada, ma quando la centralinista del comando le chiede le generalità per appurare che non sia l’ennesima chiamata finta, la signora incomincia a inveire contro il non intervento della polizia, i ritardi, e non serve che le venga detto che una pattuglia è già partita ma che è necessario avere le generalità di chi denuncia… la signora riattacca il telefono.
Il suo racconto continua con rimproveri contro le forze dell’ordine, come se la ragazza non esistesse più. Le chiedo cosa è successo alla ragazza, è ciò che conta, penso, a che serve spiegarle quello che non vuole riconoscere? Mi dice che il giovane ha sentito la sirena della polizia e ha abbandonato a terra la ragazza ed è scappato. Io le ho chiesto perché non ha urlato, perché non è uscita ad aiutare la ragazza… mi ha risposto laconicamente “Mica tocca a me!”. Mi sono estraniata dalla discussione che proseguiva contro le forze dell’ordine e continuavo a immaginare la ragazza piangente abbandonata su una strada al buio… un corpo come un sacco di spazzatura.
Ecco, mi era rimasto questo garbuglio nel cuore.
Come sia possibile perdere di vista l’essenziale, come sia possibile catapultare il proprio rancore verso le forze dell’ordine o chi per loro, come sia possibile estraniarsi al punto da diventare “registi” di uno spettacolo che mai dovrebbe essere rappresentato. Dove era la vittima? Perché in tutto questo disperdersi e proteggersi, lei non c’entrava più?
…el pueblo unido jamas será vencido…
di Loredana De Vita
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