Ultimamente il Financial Times, autorevole istituzione giornalistica britannica e mondiale, ha riconosciuto come la sartoria partenopea sia la migliore del mondo e questo perché, con il suo sapere e la propria esperienza, non segue le mode ma le fa. La sartoria partenopea, inoltre, a differenza di quella italiana in generale, oppure di quella francese ad esempio, grazie a una buona distribuzione veste i potenti e i capitalisti globali, soprattutto quelli degli Stati Uniti d’America, del Regno Unito, della Russia, del Medio Oriente, dell’Asia e, in particolare, delle capitali mondiali come New York, Londra, Mosca e Hong Kong.
Nei buoni manuali di storia antica di una volta, si leggeva che quando la Civiltà ittita crollò, i suoi fabbri, celebri per la loro grande e segreta abilità nella lavorazione dei metalli, si dispersero per il mondo antico, trovando nelle nuove culture l’ospitalità e il rispetto che meritavano i maestri in tecnologia. Nel mondo di oggi, mentre la Repubblica italiana è decadente, i suoi maestri trovano ospitalità in tutto il mondo e in maniera particolare quelli partenopei.
Mentre la sartoria partenopea una volta vestiva, faceva, i politici, gli artisti e le élite industriali italiane, ora raggiunge il mondo ai suoi antipodi. Nelle sue botteghe si scorgono ordinativi per Dimitry Medvedev e l’imprenditore milionario Frank Fertitta. Questi nomi rendono l’idea dell’alta qualità e del lusso che la perizia partenopea nell’arte sartoriale ha raggiunto e le significative quote di mercato che può ancora conquistare.
Tra le realtà produttive artigianali dell’alta sartoria partenopea che il Financial Times elogia e racconta ne rammentiamo principalmente quattro e cioè la Kiton di Arzano, l’Attolini di Casalnuovo, la Rubinacci e la E. Marinella di Napoli. Secondo Rachel Sanderson, redattrice del Financial Times, parlando della sartoria Kiton, scrive: “In un laboratorio vicino al golfo l’amministratore delegato della sartoria, Antonio De Matteis, spiega in abito scuro che un vestito cucito a mano è come stampato sul corpo. Dura più a lungo e migliora con il tempo (…)”. “Rivoltando tra le mani una giacca grigia di cashemere imbastita e mostrando una doppia linea di punti“, De Matteis rivela a una giornalista estasiata, come i minimi e i più piccoli dettagli di un capo sono di gran lunga quelli più importanti. Per questi minimi dettagli, il sapere di precisione e l’alta qualità della lavorazione, la sartoria partenopea vince su quella cinese.
Stando a quanto dice il patron Kiton, la Sanderson argomenta che “se l’italia è uno studio di contrasti, Napoli e la sua sartoria ne offrono uno dei più suggestivi. La città è tormentata da declino e degrado urbano, alcune strade sono in mano alla criminalità organizzata, mentre la fortuna dei suoi sarti, di chi taglia a mano e cuce abiti tra il languore e la bellezza reale della città, cresce. L’idea che la bellezza (dalla moda al cibo, dalla cultura al turismo) salverà l’Italia è molto diffusa tra l’élite italiana. Ma le possibilità e i limiti di quest’idea si palesano nella sartoria napoletana“.
La Kiton, la Attolini, la Rubinacci, la E. Marinella oggi sono aziende in attivo e in forte espansione. I fatturati della Kiton “l’anno scorso sono aumentati del 6 per cento a 110 milioni, grazie a 43 negozi sparsi in Europa, Stati Uniti, Medio Oriente e in Asia“. Ad Arzano “350 sarti lavorano in un vasto laboratorio con alle pareti bandiere del Napoli e immagini sacre (…). In essa si confezionano 85 giacche al giorno, 20mila all’anno“. Il vice-presidente della Kiton dichiara che “i capricci della vita quotidiana e la difficoltà di fare affari a Napoli offrono un vantaggio: insegnano ad affrontare qualunque problema, qualità che sta diventando parte del carattere dei partenopei“.
Prosegue la Sanderson che a Casalnuovo, invece, l’Attolini di Cesare Attolini, “in una zona di bassi e edifici fatiscenti” ha potuto trovare espressione la manifattura che ha curato il film La grande bellezza, circa “130 sarti, per lo più uomini, in camice bianco” che tagliano e cuciono stoffa. Massimiliano Attolini, conversando con la redattrice inglese, ha affermato che “cinquant’anni fa c’erano un migliaio di sarti a Napoli. Ora vanno in giro per il mondo“, come gli antichi ittiti a chiedere ospitalità e ad essere ricambiati per aver portato in giro per il mondo la loro tecnologia. Questo non solo perché in Italia l’eccellenza non viene apprezzata e custodita, ma, anche, perché “essere un imprenditore a Napoli significa mantenere un basso profilo (…). L’azienda confeziona undicimila abiti all’anno. Le vendite sono aumentate del 12 per cento nel 2013, anche se c’è stato un calo della spesa in Russia“.
Secondo Massimiliano Attolini il mercato del lusso è intramontabile ed è a quello che bisogna puntare. “Se fai una giacca di qualità superiore puoi difenderti dalla manifattura cinese. Devi diventare come la Ferrari. Chi è molto ricco non sente molto gli effetti della recessione“.
Maurizio Marinella sottolinea come “il mondo sta riscoprendo i capi fatti a mano. La globalizzazione non ha mai raggiunto Napoli, dove artigianato e confezione su misura sono ancora vivi“. “Oltre 20 lavoratori confezionano cravatte Marinella in due edifici. Un tempo i clienti erano cineasti e politici italiani. Ora sono americani, russi e inglesi. Ci sono negozi di Marinella a Londra, Lugano, Milano, Tokyo e Hong Kong. I ricavi dell’anno scorso ammontano a 17 milioni di euro“; ma sarà giusto che la sartoria partenopea debba sentirsi di troppo a casa sua e ospite in casa degli altri?
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