
Le inchieste giornalistiche “scomode” fanno paura? Questa è la domanda che viene da porsi dopo aver scoperto ciò che è accaduto a Gabriele Carchidi, giornalista di Cosenza nonché direttore della testata locale Iacchitè, nella giornata di sabato 22 marzo. L’uomo, approfittando del clima primaverile, scende con tuta e scarpette per fare jogging lungo via degli Stadi, strada che percorre quotidianamente per raggiungere la Redazione del giornale.
D’improvviso viene fermato da una pattuglia della Polizia che gli chiede i documenti, qualcosa di strano visto che gli agenti lo conoscono bene, e quindi, insospettito da questo atteggiamento e non avendo ricevuto risposta alla sua richiesta di sapere il motivo, si rifiuta di mostrarli e cerca di continuare la sua passeggiata, inconsapevole del fatto che proprio questo gesto innesca una vera e propria “bomba”: gli agenti chiamano una pattuglia di rinforzi che in men che non si dica accorre per prestare aiuto ai colleghi, dando il via ad uno spettacolo per niente consono ad una democrazia come la nostra, afferrando il malcapitato con la forza, togliendogli la felpa e immobilizzandolo schiacciando un ginocchio contro la sua schiena.
“È stato un momento in cui ho avuto paura” dichiara Gabriele, “sappiamo bene quante persone sono morte così. Per fortuna con uno scatto sono riuscito a girarmi”. A testimonianza di questo gesto di estrema spietatezza c’è un video girato da un testimone da un palazzo vicino che incastra gli agenti e che sta suscitando molto clamore nel mondo web. “È stato un avvertimento per le mie inchieste sulla Questura. Mi è stato teso un agguato” incalza.
A quanto pare infatti Gabriele, attraverso le sue inchieste, ha pubblicato sul suo giornale delle accuse alla Polizia di Cosenza come la presunta e misteriosa sparizione di cocaina sequestrata agli spacciatori dai locali della Questura e la presunta scomparsa di denaro sottratto ai parcheggiatori abusivi dal cassetto di un dirigente di polizia, inchieste scottanti e che danno evidentemente fastidio.
Ma Carchidi non ci sta, anzi ha dichiarato di voler procedere attraverso i suoi legali ad una denuncia perché l’episodio di sabato altro non è che un vero e proprio invito a tacere in merito proprio alle sue inchieste. “Una volta arrivato in caserma, chiedo perché mai mi avessero fermato. A quel punto un dirigente mi risponde: ‘Io sono il capo pattuglia della Squadra Volante e tu sei un diffamatore’. Insomma, se mi consideravano un diffamatore per le mie inchieste evidentemente sapevano benissimo chi sono. Volevano punirmi. Ma la mia colpa è solo quella di raccontare un sistema malato, che in Calabria riguarda un vasto sistema politico ed economico e non risparmia neanche alcuni poliziotti“.
A questo punto toccherà alla giustizia fare il suo corso e mettere luce su questa storia, ma, se Gabriele avesse ragione, si aprirebbero degli scenari non molto tranquilli per la libertà di stampa, il baluardo del giornalismo vero: negli ultimi anni, diversi giornalisti sono stati oggetto di minacce e violenze, anche a causa delle loro inchieste scomode.
La tendenza a considerare il giornalismo come un nemico da combattere piuttosto che una risorsa per migliorare la società sta purtroppo aumentando, un dato che inizia a preoccupare, tanto, e quando poi viene messo a tacere (e con le maniere forti) allora la democrazia stessa è in pericolo: ogni tentativo di manipolare la libertà di stampa è una minaccia per la vera democrazia. Allora una seconda domanda nasce spontanea: il giornalismo d’inchiesta può ancora trovare spazio in Italia?