Gaetano Azzariti: riscriviamo la storia

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Gaetano Azzariti

Napoli, il comune cambi il nome della strada dedicata a Gaetano Azzariti

Lanciata la petizione perché il Comune di Napoli cambi il nome della strada dedicata a Gaetano Azzariti.

Gaetano Azzariti, firmatario del ‘Manifesto della Razza’, a fascismo caduto, continuò la sua carriera senza che nessun provvedimento legale definitivo venisse preso. A lanciare la proposta è Nico Pirozzi, giornalista, scrittore e coordinatore del progetto Memoriae.

Napoli, che da più di quarant’anni convive con una strada dedicata al presidente del tribunale della razza, deve – innanzitutto – ricucire uno strappo con la storia. Ripristinando quegli elementi di giustizia e di verità che la delibera numero 148 del 6 luglio 1970, ha colpevolmente cancellato, omettendo il passato “fascista” e “antisemita” di Gaetano Azzariti.

Quella stessa verità che, malgrado i settant’anni trascorsi e in barba a tutti i mistificatori e trasformisti partoriti dalle varie stagioni della storia e della politica, non ha dimenticato che a poche centinaia di metri dalla via dedicata al presidente del tribunale della razza, al civico 33 di piazza Bovio, viveva la famiglia di Amedeo Procaccia, lo shammàsh della sinagoga di Napoli. Fascista anche lui, come Azzariti. La cui storia non passò per piazza del Quirinale e il palazzo della Consulta, dove Azzariti concluse la sua brillante carriera di magistrato, ma per il meno noto binario 21 della stazione centrale di Milano, da dove, il 31 gennaio 1944, partì il convoglio di carri bestiame con destinazione Auschwitz-Birklenau. A dirla tutta su quel treno furono costretti a salirci in 605. Seicentocinque ebrei. Tra loro anche, Iole Benedetti, la moglie dello shammàsh. E poi i figli Elda e Aldo; la nuora Milena Modigliani; i generi Loris Pacifici e Sergio Molco; e i nipotini Paolo e Luciana, di 12 e 8 mesi.

Luciana, la figlia di Elda e Loris, non sopravvisse a quell’allucinante viaggio che, nel gelo dell’Europa centro-orientale, durò una settimana. Paolo, il figlio di Aldo e di Milena, finì con la madre e i due nonni nella camera a gas di Auschwitz-Birkenau; era il 6 febbraio. Aldo, a cui fu tatuato il numero di matricola 173465, scomparve in quel girone infernale che inghiottì un altro milione di ebrei. Stessa sorte capitò anche a Loris. Sergio Molco, il marito di Ivonne, l’unica sopravvissuta della famiglia Procaccia assieme al figlio Renato, sopravvisse alla liberazione del lager, ma non alle malattie che ne avevano irrimediabilmente minato il fisico (morì ad Auschwitz il 28 febbraio 1945).

Elda, invece, dopo una breve permanenza nel campo dove erano stati assassinati i genitori e il nipotino, e ridotta in cenere la figlia Luciana, fu trasferita a Bergen-Belsen, dove morì di stenti e malattia nel dicembre 1944. È a loro. È a Luciana Pacifici, la più piccola delle quaranta vittime napoletane della Shoah, e non a colui che è stato al vertice della più infamante delle istituzioni fasciste e la cui storia è un vero e proprio monumento al trasformismo, che va dedicata una strada. Non è successo. Ma il tempo per pareggiare il conto con la storia, per il Comune di Napoli, non è ancora scaduto.

di Tonino Scala

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8 febbraio 2014