L’Italia si conferma sempre più il paese della generazione Neet. Per chi non lo sapesse, il termine Neet è l’acronimo di “not in education, employment or training”. In italiano è anche detto né-né, a indicare persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.
In sette anni la generazione Neet è arrivata a 2,4 milioni
Nel nostro Paese i Neet erano 1,8 milioni nel 2008. Nel giro di sette anni se ne sono aggiunti altri 550mila, fino ad arrivare ai 2,4 milioni di oggi. “Un livello allarmante mai raggiunto nella storia”. Come rivela una recentissima indagine di Alessandro Rosina, demografo e sociologo dell’università Cattolica di Milano, riportata da Repubblica: “La quantità di giovani lasciati in inoperosa attesa era già elevata prima della crisi – scrive nel volume Neet, edito da Vita e pensiero – ma è diventata una montagna sempre più elevata e siamo una delle vette più alte d’Europa”. Il 2014 è stato l’anno in cui l’Italia ha toccato il punto più basso di nascite ma il valore più alto di Neet: si muovono in questo labirinto il 26 per cento dei giovani italiani fra i quindici e i trent’anni. La media europea è del 17 per cento, di nove punti più bassa. Ma ci sono Paesi come la Germania e l’Austria dove i ragazzi in questa condizione non superano il 10 per cento”.
Su dieci ‘giovani adulti’ della generazione Neet, quattro hanno solo la licenza media
Su dieci Neet, cinque sono diplomati mentre quattro hanno solo la licenza di terza media. E non sono solo under trenta. Basta pensare che in Italia, secondo l’Eurostat, quasi il 66 per cento dei “giovani adulti” vive a casa con i genitori. Una percentuale di quasi venti punti superiore rispetto alla media di tutti e ventotto i Paesi Ue.
Le loro storie sono legate dalle stesse paure, sottolinea Rosina: “Vagano senza meta, sempre più disincantati e disillusi, con il timore di essere marginalizzati e di dover rinunciare definitivamente a un futuro di piena cittadinanza”. La fetta più consistente dei Neet è costituita da chi in questo momento è alla ricerca di un impiego e quindi dai disoccupati. Ma se per loro questa condizione dovesse durare troppo a lungo, il rischio più grande è che passino dalla parte dei cosiddetti “inattivi”, cioè che quell’impiego non lo cerchino più. Magari anche finendo per ingrossare le fila del lavoro nero. Gli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile sembrano purtroppo andare proprio in questa direzione. A settembre i senza lavoro fra i quindici e i ventiquattro anni erano il 40,5 per cento. Il loro lieve calo dello 0,2 per cento rispetto ad agosto non suona però esattamente come una buona notizia: nello stesso mese gli “inattivi” nella stessa fascia di età sono aumentati dello 0,5 per cento.