Sì, lo so: “Prove tecniche di Ambarabà” è un titolo impossibile, lungo e bislacco per uno spettacolo.
Ergo non ti sorprenderai se ti dirò che è impossibile raccontare lo spettacolo. Però qualcosa te la posso dire.
Posso dirti che andrò a ruota libera ma con sapienza demenziale, che sarò surreale e visionario ma restando coi piedi per terra, che mi avviterò e mi scioglierò nelle mie trappole comiche, che mi abbandonerò alle mie ossessioni.
Poi posso dirti che sarà tutto uno sparare a raffica, quasi senza darti il tempo di sintonizzarti con le parole e i concetti. Giocherò con il senso e con il controsenso, strutturerò e destrutturerò, sconvolgerò le architetture del linguaggio per farne detriti, creerò un autentico turbinio di pensiero con il quale dovrai obbligatoriamente fare i conti prima che se ne perda la nozione (e pensare che c’era il pensiero, diceva una volta Gaber… un collega).
Posso dirti che non è stand-up comedy anche se sto per la maggior parte del tempo in piedi, posso dirti che non è cabaret anche se è divertente.
Sì, lo so, adesso sei confuso e ti starai chiedendo: “Ma di che si parla?”
Si parla di voci fuori campo, di lavagne, di Amleto, di macchine elettriche, di burattini, di punteggiatura, di scioglilingua, di matematica, di Pulcinella, di giubbini innamorati.
E se tutto questo non ti basta… mi trovi d’accordo.
Ho impiegato 29 anni per scrivere questo spettacolo.
Ho iniziato da bambino – quando per farmi ridere mi bastava la parola “Ambarabà” – e alla soglia dei miei trent’anni lo porto in scena. Eppure, mi diverte reputarlo ancora delle “prove tecniche” e non uno “spettacolo”.
Oggi gli spettacoli a teatro sono fatti dai personaggi e i personaggi sono rassicuranti.
Io non sono un personaggio e non sono rassicurante, è più faticoso ma – ve lo assicuro – è molto più piacevole.