Diversi insegnanti e oltre 50 studenti chiacchierano e scherzano in italiano malgrado le loro disparate provenienze: Mali, Ucraina, Gambia, Perù, Nigeria, Bielorussia, Repubblica Dominicana, Venezuela, Ghana.
Vedendo la gioia nei loro volti, non posso fare a meno di pensare come per la maggior parte facciano parte del grande popolo di oltre 35 milioni di rifugiati che hanno attraversato un confine internazionale in cerca di sicurezza a causa di conflitti, violenze, persecuzioni e discriminazioni subite nei Paesi d’origine, amplificati dalle crisi climatiche, alimentari e dal Covid 19.
L’Alto Commissario per i rifugiati, in occasione della Giornata mondiale del 20 giugno, ha espresso preoccupazione per l’inasprimento delle regole sulla loro ammissione, per l’ostilità crescente all’accoglienza di leaders politici e opinioni pubbliche europee. Definizioni come “sostituzione etnica” – gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro – teoria complottista con radici antisemite e razziste, manifestano, come ha recentemente scritto Marco Impagliazzo “una società percorsa da pulsioni semplificatorie e generalizzanti che danno luogo a manifestazioni di razzismo strisciante o esibito, non di rado violente”.
Questo clima di permanente aggressività verso i migranti, visti come gli altri contrapposti a noi, è peraltro totalmente fuori luogo rispetto alle crescenti necessità della loro presenza imposte dalla storia e dalla realtà del nostro Paese.
Economiche, come spiega bene Tridico, Presidente dell’Inps quando, ribadendo l’esigenza tutta italiana di coprire la domanda di lavori medio bassi da Nord a Sud con un maggiore, regolare e fluido flusso di migranti, dice sinteticamente: “Le economie ricche hanno tutte molti migranti”. Senza contare che nel sistema occupazionale italiano, gli immigrati fungono da “ammortizzatore sociale aggiuntivo” a beneficio dei lavoratori italiani e possono evitare tra 20 anni la criticità enorme dei conti delle pensioni.
Da un punto di vista demografico il rapporto ISTAT 2023 del 7 Luglio rileva in Italia la “consistente emigrazione, soprattutto di giovani, non controbilanciata da altrettanti flussi migratori in entrata”.
Della urgente necessità italiana di scolarizzare bambini migranti che impediscano a scuole di tutti i livelli di chiudere per carenza di italiani, si è spesso detto.
A cosa serve allora la discriminazione istituzionale, burocratico-amministrativa, abitativa, scolastica e lavorativa che subiscono rifugiati, profughi e i migranti?
E’ un grande autogol di una società indolente e refrattaria a comprendere.
Mentre penso a tutte queste cose ascolto Ruslan, giovanissimo profugo ucraino arrivato a Napoli dal suo Paese in guerra alla Scuola a Settembre, sfiduciato, senza comprendere e pronunciare una sola parola in italiano. Ora in un italiano quasi perfetto racconta sorridente e orgoglioso di come, attraverso il potente strumento d’integrazione della lingua italiana appreso a Sant’Egidio “ho trovato un piccolo ma stabile lavoro e voglio iscrivermi all’Università”.
Osservo e ascolto altri studenti. Nei loro sguardi e parole traspaiono impegno, motivazioni, gioia, gratitudine, apertura agli altri, aspettative e fiducia nel futuro: proprio i sentimenti e gli atteggiamenti di cui i nostri giovani e i nostri cittadini spesso hanno tanto bisogno.
E comprendo meglio il valore aggiunto della presenza dei nuovi europei: questi nostri concittadini, lungi dall’essere un problema, sono una grande risorsa umana e culturale di cui tutti abbiamo estremamente bisogno. Ci risvegliano dal torpore dell’indifferenza, ci rendono migliori e aprono il nostro Paese a nuovi orizzonti di speranza e di pace. Vogliamo finalmente prenderne atto?
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