L’emergenza COVID-19 – con il 95% dei decessi registrati in Europa di ultra 65enni per lo più in condizioni di fragilità fisiologica (Dati OMS) – ha riportato il tema degli anziani al centro del dibattito pubblico. Soprattutto per la reazione rassicurata dell’opinione pubblica giovane e adulta, verso una condizione patologica che li risparmiava, nei confronti di una terza età in fase di declino complessivo, e quindi “giustamente” più colpita.
Tale realtà è solo l’ultima edizione di un fenomeno conosciuto come “ageismo”, termine coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Neil Butler per indicare l’insieme dei pregiudizi, degli stereotipi e delle discriminazioni basati sull’età.
La repulsione e l’avversione delle generazioni giovani e adulte verso la malattia e la disabilità solitamente associate all’età anziana, è un fenomeno complesso, pervasivo e diffuso (secondo il Global Report on Ageism, ONU, 2021 in Europa colpisce una persona su tre)
Nelle nostre società che invecchiano e che pure enfatizzano continuamente la gioventù e la bellezza fisica, i vecchi sono considerati come dice Butler “lenti, incapaci, inefficienti, mancanti”; la condizione anziana è di conseguenza stigmatizzata e marginalizzata, configurando la tipologia di discriminazione oggi più frequente e socialmente accettata.
Tra le sue conseguenze negative sulla vita degli anziani, c’è sicuramente l’isolamento sociale, la passività e la sedentarietà, la discriminazione lavorativa, l’accesso limitato alle risorse (alloggi, servizi sanitari), con conseguente riduzione della qualità della vita e delle relazioni sociali.
Certo si potrebbe dire che tra le cause dell’ageismo ci sono fattori emotivi e psicologici, come la paura e l’ansia associata alla vecchiaia e alla morte, o i successi medici che riescono ad aumentare la prospettiva di vita, cronicizzando malattie una volta letali e rendendo possibile una lunga vita pur con pluripatologie.
Ma quel che influisce maggiormente è una ignoranza e una totale inconsapevolezza di gran parte della società adulta del cambiamento di profilo avvenuto negli ultimi decenni nella condizione degli anziani, ormai estremamente eterogenea e diversificata nelle sue caratteristiche. Basterebbe pensare al determinante apporto degli over 65 all’ economia familiare, al tempo dedicato ai nipoti, al lavoro gratuito, alla partecipazione significativa a tante forme di volontariato di grande utilità sociale.
Una raffigurazione dell’anziano più complessa e realistica sarebbe davvero auspicabile per rivalutare e cambiare il modo di guardare e pensare alla longevità, costruendo una cultura che valorizza le diversità e non usa stereotipi negativi (ad esempio nei linguaggi e nelle rappresentazioni dei media).
Infatti, come sottolineato da Mons. Paglia – Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e promotore della Fondazione “Età grande” – ”di fronte a un’aspettativa di vita crescente e un contesto storico-sociale-familiare in mutamento si fa fatica a cogliere i significati sempre più differenziati collegati all’essere anziani oggi”
A livello individuale e collettivo occorrerebbe promuovere nuove forme di educazione e sensibilizzazione sui problemi legati all’ageismo, contestando e sradicando la visione stereotipata dell’inutilità (anzitutto produttiva e poi sociale) dell’anziano, tipica delle società individualiste ed efficientiste, che rischiano di normalizzare la cultura dello scarto e dell’abbandono dei fragili.
A livello globale tante sono le cause di questo abbandono: l’emigrazione forzata dei figli (soprattutto nei Paesi più poveri), i tanti conflitti che relegano gli anziani soli in quartieri devastati dove regna l’abbandono, la presunta e ingannevole contrapposizione tra le generazioni.
Ma la pandemia silenziosa di solitudine e di scarto di tanti anziani deportati in Istituti anonimi, o sempre più isolati nel deserto metropolitano, non è casuale né inevitabile, bensì risultato di precise scelte personali, sociali, economiche e politiche.
A tutti questi diversi livelli è indispensabile porre al centro della riflessione sulla terza età la persona, con i suoi bisogni e le sue fragilità: solo così si possono concepire e praticare insieme politiche in favore dell’anziano, una diversa organizzazione sociale e urbana (focalizzata su domiciliarità, prossimità, intergenerazionalità), dinamiche di lungo periodo in cui diversità e debolezze siano incluse in una tessitura rigenerativa di esperienze collettive.
Gli anziani, come ha dichiarato Mario Marazziti, “nella solidarietà e nella relazione, nella capacità di sacrificio per gli altri costituiscono una riserva d’anima e indicano la via per il futuro”.
Per le nostre società individualiste e indifferenti, non un peso dunque, quanto una neccessità.
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