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Il calvario delle donne homeless

In Italia le donne rappresentano circa il 32% per cento delle persone senza dimora (erano il 14% nel 2015), che comprendono le “persone senza fissa dimora” e le “persone senzatetto”(dati ISTAT 2021). Le cifre parlano di circa 31.000 donne homeless, di frequente tra i 40 e i 50 anni, spesso sole e straniere – e di un aumento dei nuclei familiari di donne giovani con bambini – bisognose di supporto alimentare, psicologico e lavorativo.

Donne con situazioni difficili, prive di una rete sociale e familiare di supporto, la cui condizione, rispetto agli omologhi maschili, presenta delle peculiarità di “invisibilità”.

Ad esempio nella loro vita, a differenza che negli uomini, c’è spesso una precedente storia domestica di violenza e di abusi sperimentati con mariti, compagni, padri. Per questo motivo spesso, dopo aver invano bussato ai centri antiviolenza – molte donne “devono” scegliere di abbandonare la casa e le relazioni primarie, cadendo così nella spirale drammatica di violenza ed esclusione sociale di chi vive in strada.

Peraltro – profondamente connessa alla violenza fisica, psicologica e sessuale – patiscono anche quella diffusa “violenza economica” – definita dall’European Institute for Gender Equality “controllo e minaccia costante di negazione di risorse economiche» – subita in Italia dal 49% delle donne e dal 67% di quelle separate o divorziate: un dato superiore alla violenza sessuale e allo stalking (Ipsos 2023). La mancanza di denaro si traduce nell’impossibilità per le donne di essere indipendenti, di emanciparsi, magari scegliendo di andare via da un contesto violento: spesso molte donne finiscono così a vivere per strada.

In tante situazioni di estrema violenza domestica ed economica, di marginalità sociale e prolungato disagio abitativo, le donne cercano prima di tutto – come soluzione temporanea – sistemazioni informali, la c.d. “homelessnesss nascosta”: accoglienza in abitazioni di conoscenti, amici e parenti; permanenza in roulotte o in accampamenti.

L’alternativa è infatti la strada, con il suo carico di precarietà, solitudine e stress. Tutti potenziali vettori di ansia, depressione, dipendenze da alcol e droghe, ricorso strumentale alla prostituzione: per cercare in qualche modo di resistere alle difficoltà della vita, o per garantirsi sostegno materiale, protezione fisica ed emotiva.

A rendere ancora più grave – e poco rilevata – l’emarginazione homelesss femminile ci sono poi la vergogna, la discriminazione e lo stigma che le donne provano per non corrispondere alle aspettative sociali che le nostre società gli attribuiscono. I tradizionali stereotipi femminili e i ruoli sociali di genere di madri, mogli e figlie comportano infatti un maggiore senso di fallimento per le donne, per le quali la strada – con l’esposizione a livello fisico, alla violenza e all’insicurezza – rappresenta l’ultima delle scelte, ma che spesso rimane l’unica possibile. Magari dopo essersi inutilmente rivolte ai pochi servizi sociali, carenti di quelle risposte coordinate e multidisciplinari necessarie a rispondere alla estrema complessità delle loro condizioni.

In più, rispetto agli uomini, le donne senza fissa dimora registrano multiple condizioni peculiari di svantaggio: il rischio (molto frequente per le donne immigrate) di restare senza casa e in povertà a causa del difficile mercato del lavoro, le maggiori responsabilità di cura come unico genitore di un nucleo familiare; e ancora maggiore esposizione a condizioni di discriminazione e svantaggio.

Per non parlare della eventualità di separazione forzata dal figlio/a minore, che in questi casi viene preso in carico dai servizi sociali e dal tribunale dei minori che, con frequenti procedimenti e decreti di adottabilità del minore, lo allontanano dalla madre. Il trauma della separazione dal proprio figlio, porta inevitabilmente la donna homeless ad una marginalità esistenziale e materiale, e a dolorosi decorsi psichici.

Come se non bastasse, una volta finite per strada le donne devono far fronte a ulteriori rischi di violenze, che le spingono alla ricerca di invisibilità (per esempio dormendo in spazi poco frequentati come garage, bagni pubblici, capannoni, binari abbandonati), o a nascondere il proprio genere modificando l’ abbigliamento, per evitare di subire molestie; magari stringendo rapporti di amicizia con uomini che vivono per strada per assicurarsi una protezione, che spesso diventa invece rischio di minaccia e possesso.

Di fronte a questo quadro drammatico, aggravato dal vuoto di attenzione e intervento delle politiche pubbliche, occorrerebbe – anzitutto e da parte di tutti – almeno assenza di giudizio e rispetto verso la sofferenza di queste povere donne. Più spesso invece nella narrazione comune la loro presenza nelle strade della città è associata a sporcizia, incuria, degrado. E così paradossalmente quelle donne – che magari hanno lottato strenuamente per le persone che amano, sopportando violenze di ogni genere e rinunciando per loro alla cura di se stesse – diventano bersaglio di sguardi impietosi e parole di riprovazione e disprezzo.

Fabrizio De Andrè, citato da Papa Francesco proprio a proposito delle persone che la società benpensante troppo spesso esclude e lascia indietro – ha scritto a chi le giudica: “Non ti assalga il rimorso ormai tardivo per non aver pietà giammai avuto. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo

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Mario De Finis

Docente, formatore e autore di testi in ambito universitario. Credo che promuovere insieme una cultura inclusiva e di pace, ispirata da amicizia e solidarietà, possa cambiare la vita e la storia. A partire dai giovani e dai più fragili.

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