Se un terzo degli americani si percepisce “gravemente solo” (rispetto a un quinto prima della pandemia), l’UE vive una epidemia della solitudine che colpisce circa il 13% della popolazione, con alti tassi di solitudine nella vecchiaia.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le persone più sole – in America come in Europa – non sono soltanto gli anziani. Si tratta ad esempio di giovani adulti (con una vita fatta di legami sociali deboli) e madri di bambini piccoli che crescono senza un partner e con scarsa possibilità di vita sociale.
Se negli USA ci sono 100 milioni di case unifamiliari contro 40 milioni di case multifamiliari, anche in Italia questo modello di vita – espressione di una cultura materialista e individualista – offre dati inquietanti: 8,5 milioni di persone sole (pari al 33% delle famiglie residenti), che saliranno a 10,2 milioni nel 2041 (Dati “Il Sole 24 Ore”).
Fortunatamente anche in Italia crescono in questi ultimi anni una maggiore consapevolezza del fenomeno-solitudine – descritto da Noreena Hertz nel suo bel saggio “Il secolo della solitudine” come un aspetto dei più critici del nostro tempo – e la ricerca di nuovi percorsi per superare questa situazione.
Tra questi, il creare comunità eterogenee.
Sempre più persone e famiglie infatti guardano a questo tipo di esperienze, e cercano modelli abitativi condivisi: case-famiglia, “comunità intenzionali” (condomini solidali, ecovillaggi, cohousing), appartamenti multipli, cohousing sociali.
Il termine cohousing (coresidenza) fa appunto riferimento ad insediamenti abitativi composti da alloggi privati, corredati da ampi spazi comuni (coperti e scoperti) destinati all’uso collettivo e alla condivisione tra i coresidenti.
Nata negli anni ’60 in Danimarca, il fenomeno del cohousing si sviluppa negli anni ’70 in Europa (in particolare in Danimarca, Paesi bassi e Repubbliche scandinave) e successivamente negli anni ’80 negli USA, nei ’90 in Germania, nel 2000 in Italia.
Il denominatore comune alla base di tutte queste esperienze è – in controtendenza rispetto all’anonimità di palazzoni scomodi, ad alto impatto ambientale e costosi, in cui è quasi impossibile vivere relazioni – il desiderio di creare con i vicini una forma abitativa sostenibile, a livello ecologico e umano.
Quindi condividere spazi, attrezzature, risorse, e un sistema di benessere “fai da te”, per vivere una comunità allargata di intenti, basata su scambi e rapporti di fiducia, il più possibile solidali.
Si configura quindi un embrione di un nuovo sistema sociale che, attraverso partecipazione, vicinato attivo e supporto reciproco, mira a ricucire relazioni umane autentiche, in uno spazio preservato da logiche competitive proprie del modello individualista imperante.
Al di là del significativo impatto che il cohousing potrebbe avere come vettore di ridefinizione e rigenerazione urbana (nella direzione di una maggiore sostenibilità e qualità di vita dell’abitare), preme qui sottolinearne proprio l’aspetto di integrazione e coesione sociale fra persone appartenenti anche a culture diverse.
Judith Shulevitz, critica culturale americana, esprimendo un sentire sempre più crescente, ha scritto sul New York Times: “Se dovessi individuare una caratteristica cooperativa che trovo particolarmente attraente, sarebbe il contatto regolare e spontaneo con persone di tutte le età e condizioni”.
E’ in atto insomma un impulso “comunitarista” – sicuramente figlio della nostalgia postpandemica per la frequentazione fisica di amici e persone care che il COVID-19 aveva impedito – ma che anche esprime desiderio di quello che la psicologa Susan Pinker chiama “il potere trasformativo della prossimità”.
Una buona notizia e un orizzonte di speranza per chi crede nella forza del convivere.
E per chi può scoprirla.
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