L’8 Aprile è stato il 34° anniversario della Giornata Internazionale dei rom, sinti, camminanti, proclamata dall’ONU, sulla scia del genocidio da loro subito durante la 2° guerra mondiale e della conseguente nascita nel dopoguerra di un movimento identitario del popolo rom.
La diffidenza verso gli zingari in Europa nasce sin dal Medioevo a causa dei loro usi e costumi diversi; si protrae nel Sacro Romano Impero, con la riforma protestante ed ancora nel 17° secolo, con accuse che andavano dalla stregoneria, allo spionaggio, al brigantaggio; e con pene severissime, sino alla pena di morte.
Se con l’illuminismo la situazione migliora leggermente – con l’attenuazione di queste misure e la loro trasformazione in forme di controllo e monitoraggio – già da prima della 2°guerra mondiale si assiste alla schedatura dei popoli rom, sinti e caminanti. Nel 1926 anche in Italia, dove pure la presenza rom risaleal 1422, si cerca di evitarne la presenza sul territorio nazionale mediante l’epurazione dal territorio, attraverso dedicati impianti normativo-repressivi.
Insomma un po’ dovunque in Europa, sulla base di pregiudizi di lunga data consolidati attraverso i secoli, si è costruito lo stereotipo dello zingaro criminale irrecuperabile, disconoscendo a quel popolo identità, lingua, cultura e struttura sociale; facendone oggetto di discriminazioni, antiziganismo e tentativi di annientamento.Sino all’ideologia nazista e dei suoi alleati che ha portato all’internamento, alla deportazione, al lavoro forzato e, infine, allo sterminiodi massa sistematico degli zingari – 500 mila persone secondo gli storici -negli anni dal 1933 al 1945. E’ ilc.d. “Samudaripen”, che in lingua romanessignifica letteralmente “tutti uccisi”, cioè genocidio: sterminio di uomini, donne, anziani e bambini considerati asociali e di razza inferiore.
La memoria dell’8 Aprile, e di questa persecuzione (proseguita nel dopoguerra come discriminazione generalizzata del popolo romanì in tutta Europa) offre quindi lo spunto per alcune considerazioni sul presente e sul futuro dei rom.
Anzitutto numeriche. In Italia, secondo il Consiglio d’Europa, i rom, sinti e camminati presenti vanno dalle 110.000 alle 170.000 unità, e costituiscono lo 0,25% della popolazione (una tra le percentuali più basse in Europa). Di questi circa 70.000 hanno la cittadinanza italiana; mentre tra quelli “stranieri”almeno il 50% vive in Italia da più di 20 anni. Inoltre il 55% ha meno di 18 anni.
Quindi una piccolissima minoranza, fatta soprattutto di bambini e giovanissimi.
Alla luce di questi dati, ripensando alla loro storia costellata di sfide e pregiudizi, di contrasti e di mancanza di scambio culturale con le popolazioni ospitanti, viene da riflettere quanto siano inopportune e pericolose – magari rispetto a singoli fatti di cronaca – derive semplificatorie, recriminatorie e giustizialiste nei loro confronti.
Prima di esprimere parole di disprezzo – che poi diventano atteggiamenti violenti – bisognerebbe anzitutto conoscere le loro reali condizioni: livello di istruzione e di disoccupazione, aspettativa di vita e mortalità infantile, situazione abitativa e tasso di disoccupazione, accesso ai servizi sociali, sanitari e di welfare, reale grado di integrazione.
A volte, proprio per il consolidato pregiudizio frutto di ignoranza, le persone rom che vivono in case, in condomini non vengono riconosciute come tali!
Papa Francesco ha detto in differenti occasioni nel 2014 e nel 2019:“Glizingari a volte sono visti con ostilità e sospetto, quindi con disprezzo. Ma i veri cittadini di seconda classe sono quelli che – con l’aggettivo dispregiativo che crea distanze, con il chiacchiericcio o con altre cose – scartano la gente:questa non è civiltà”.
Sarebbe molto più proficuo che la classe politica e la società civile lavorassero insieme per una cultura dell’incontrocon il mondo rom, in cui conoscere e scambiarsil’un l’altro storie, cultura, presenza, tradizioni, diritti: e quindi rispettarsi reciprocamente. Ad esempio si interrogassero su come garantire il diritto allo studio di queste poche migliaia di minori, magari con interventi di sostegno e supporto scolastico nei quartieri a più alta fragilità sociale, in collaborazione con le scuole e le agenzie sociali.
Migliorare il percorso scolastico e la socializzazione di questi giovanissimi al di fuori del contesto di precarietà abitativa o di dimensione familiare, consentirebbe di contrastarne efficacemente l’isolamento e l’abbandono scolastico, con ricadute eccellenti sulle prospettive di studio e sull’ inserimento lavorativo.
Sarebbe un modo intelligente di costruire una nuova tenuta della collettività, utile davvero a tutti.