Ricco e controverso è il mito popolare de O’ munaciello, ma come altri miti esso diviene evidenza solo quando rimane come sospeso tra storia e leggenda, quando convince senza sfociare troppo nella fantasia, quando è custodito da un alone di verosimiglianza. Le cronache napoletane della tradizione più consolidata che nelle pagine di Matilde Serao trovano degna guardianìa, raccontano di un’anima inquieta, grande e sofferente, di un’esistenza imprigionata in un gracile corpicino, bizzarramente piccolo e deforme, un distillato di vissuti travagliati, indolenti e rabbiosi, commoventi e penosi, pile di ingiustizie, soprusi, offese e violenze, un fanciullo percosso e torturato, che come un relitto umano è abbandonato tra la memoria e l’oblio.
O’ munaciello può essere ladro e maligno, cattivo e malaugurante oppure consolante e attento, dispensatore di fortune e aiuti alla sorte. Tutto sembrerebbe dipendere dalla sua complessa storia che secondo la Serao inizia con un amore impossibile tra un giovane plebeo, Stefano Mariconda, e una giovane piccolo-borghese napoletana Caterinella Frezza.
Se la loro storia fu di intensi momenti di passione e speranza, fu anche di sofferenze inflitte dal contesto familiare e sociale stupido e impermeabile, abbandonato storicamente al qualunquismo da bottegai e da classe parassita. Una delle notti in cui i giovani solitamente si incontravano a riparo dalle rigidità ottuse dalla quotidianità, Stefano fu sorpreso che sgattaiolava su uno dei tetti da cui poteva raggiungere l’amata e da lì mandato a morte sulla piazza da uno dei familiari di lei. Catarinella per il dolore e l’odio verso la propria famiglia fuggì via, trovando riparo presso un convento. Qui vi partorì e vi crebbe suo figlio, il quale, forse per un clima di malsano dolore e di pesanti sventure, nacque nano e deforme, melanconico e intransigente.
Nei quartieri della città vecchia e plebea il piccolo crebbe tra maltrattamenti e ingiurie, a causa del suo aspetto e delle vesti un po’ monastiche che portava, e tutto questo lo formò con un animo fragile e violento, instabile e travagliato. La morte prematura della madre lo abbandonò nel mondo degli uomini prima del tempo, in balia di chi ad esempio un giorno, vedendo in lui un oggetto impossibile e mostruoso, lo assassinò, strangolandolo e gettandolo in una delle fogne. Da lì, sotto forma di spirito tormentato, vagò per le strade umide e malsane della città plebea, infliggendo cattiverie o altruismi in base alla riconoscenza o alla fedeltà dei popolani di turno coinvolti.
In base ad altre fonti, più verosimili ma non per questo meno intriganti, la leggenda dello spiritello noto come O’ munaciello, è da spiegarsi in merito a un’abitudine degli abitanti dei quartieri alti di Napoli, che per passare il tempo e, soprattutto, per abbattere la noia, si concedevano delle finestre di convivenza con gli strati più poveri e proletari della città. Non molti sanno che in seguito all’ammodernamento del sistema delle acque potabili e della conversione degli antichi acquedotti romani in fognature, Napoli conobbe la comparsa di una nuova figura proletaria, quella dei “pozzari”, gli addetti ai corridoi sotterranei delle acque reflue.
I pozzari erano abbigliati con una caratteristica divisa, più simile a una tonaca monacale con cappuccio che a una tuta da officina o a un impermeabile. Molti dei pozzi neri che questi operai risalivano, immettevano direttamente nei palazzi patrizi, con le cui padrone di casa, il più delle volte, i pozzari passavano il tempo libero tra il gioco d’azzardo e favori di altra natura.
Lo spiritello era, dunque, l’uomo dei pozzi neri con cui ci si poteva divertire? O munaciello era uno dei tanti personaggi delle leggende napoletane di cui ci scriveva la Serao? Forse non lo sapremo mai, ma ciò che importa è che il mito si mantenga, che venga trasmesso, custodendo con lui parte della memoria di un popolo, quello napoletano.
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